Il fascino dell'Opposto: un'America in lotta
La solennità tutta americana nello scontro, nella militanza politica e pure nella faziosità.
Parlare di Stati Uniti finisce sempre per far storcere irrimediabilmente il naso a qualcuno. In quello che è sempre stato il mio mondo (dell’attivismo femminista intersezionale), poi, a tante e tanti. Perché parlare, proprio, di Stati Uniti? Dedicare del tempo a una potenza controversa, dagli annali fatti di strappi - spesse volte mai ricuciti - con diverse parti del mondo?
Se, chiudendo gli occhi, provo a pensare istintivamente a che parole usare per riassumere gli Stati Uniti, queste sarebbero: controversie, scontro, identità, lotta, solennità. Perché gli Stati Uniti sono sempre stati, per me, la zona franca dell’Opposto, della Contraddizione che affascina perché espone a nudo occhio le ipocrisie dell’umana natura. E, dunque, perché non indagare un mondo che più di tutti rispecchia la nostra complessità individuale, ponendola costantemente sotto una lente per ingrandirla?
Prendete la storia del diritto all’aborto degli Stati Uniti, ovvero proprio quel tassello che mi ha spinto a comprendere che dietro la patina di evidenti e registrate prevaricazioni esiste una lotta spinosa, multilivello, ma soprattutto secolare; provate a dedicare 99 minuti del vostro tempo alla visione del documentario Netflix “Reversing Roe”, e arrivate al punto in cui i Giudici della Corte Suprema si chiedono che cosa rappresenti il diritto all’aborto: le sentite quelle parole lasciate in sospeso nell’aria? Io le ricordo ancora - senza più aver visto il documentario, tra l’altro - “è una questione legale, una questione costituzionale, una questione medica, una questione filosofica, una questione religiosa. Che cos’è?”. E dunque, che cos’è il diritto all’aborto negli Stati Uniti? Si è mai risposto a questa domanda?
È conflitto, sono verità prese come assolute e poi negate, in linea con ogni scontro che ha caratterizzato la lunga storia degli Stati Uniti. Si punta al cuore del contrasto continuo tra due tendenze opposte, che ogni giorno viviamo sulla nostra pelle: comunità contro individuo.
Da donna non posso ignorare come i nostri corpi siano i primi a pagare le conseguenze di politiche repressive, ma soprattutto, come la storia degli Stati Uniti sia fondata (anche costituzionalmente) sul contenimento in uno spazio ristretto di azione e libertà dei corpi femminili, a maggior ragione quando razializzati.
Ogni volta che l’America compie passi indietro sul tracciato dei diritti, c’è solo un testo - scoperto tra le pareti della Library of Congress, un edificio che riassume perfettamente la solennità caratteristica di questo mondo di difficoltà a comprendersi e a parlarsi tra generi e generazioni - della scrittrice femminista Afroamericana Kay Lindsey, a ricordarmi perché davvero, ne vale la pena di parlare degli Stati Uniti:
I’m not one of those who believes That an act of valor, for a woman
Need take place inside her.
My womb is packed in mothballs And I hear that winter will be mild.
Anyway I gave birth twice
And my body deserves a medal for that But I never got one.
Mainly because they thought
I was just answering the call of nature.
But now that the revolution needs numbers Motherhood got a new position
Five steps behind manhood.
And I thought sittin’ in the back of the bus Went out with Martin Luther King.
Lindsey ha catturato e cristallizzato la stanchezza di lottare contro i mulini a vento, spesse volte anche contro chi dovrebbe - come all’epoca, gli esponenti del Movimento per i Diritti Civili - schierarsi automaticamente dalla tua parte. La storia americana ci racconta che non sempre esiste linearità nell’azione, è che chi dovrebbe più di tutti rappresentarti può lasciarti indietro senza possibilità di appello.
Oggi siamo stanchi, probabilmente anche frustrati, pensiamo sia tempo di superare un amore non corrisposto per un Paese complesso, eppure siamo ancora qui a tentare di concludere l’esercizio più difficile per tutti noi: chiederci - e anche spiegarci - perché andremo avanti a parlare di Stati Uniti nonostante ci sentiamo delusi da un mondo e una politica che non sempre risulta all’altezza delle nostre idealizzazioni. Sarà questo, forse, “il nostro atto di valore”: usare l’America come uno specchio; ripensare a quanto è capace di rappresentare plasticamente la labile natura umana e continuare a dare voce alle sue contraddizioni.