Il diritto di essere americani: Trump e la guerra aperta alla cittadinanza per nascita
Il Presidente non ha perso tempo e contesta, conclusa la Cerimonia d'Insediamento, uno dei pilastri dell’identità americana.
Dalla Guerra civile e dal periodo della Ricostruzione, nascere negli Stati Uniti significa essere incontestabilmente e costituzionalmente americano di diritto. La lingua del XIV emendamento alla Costituzione, infatti, è estremamente chiara sul tema: tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Dal 1868, dunque, poco spazio per dubbi o incertezze sul diritto alla cittadinanza per nascita.
Un privilegio lungo 157 anni che, tuttavia, fa storcere il naso al neo ri-eletto presidente Donald Trump, il quale ha prontamente firmato, a poche ore dalla Cerimonia di Insediamento, l’ordine esecutivo “Protecting the Meaning and Value of American Citizenship” tentando di sradicare uno dei pilastri dell’identità americana e dando, così, la giusta spinta ideologica alla nuova amministrazione del tycoon. All’indomani dell’Inauguration Day è, quindi, il caso di chiedersi: il Presidente può davvero cancellare il diritto alla cittadinanza per nascita?
Serve, innanzitutto, adottare un’ottica retrospettiva rispetto al primo mandato di Trump, utile sicuramente per illuminare su quanto lo strumento dell’executive order sia tra i preferiti del Presidente – Trump ha emesso, tra il 2016 e il 2020, 220 ordini esecutivi, superando così il record precedentemente stabilito dal presidente Obama (firmatario di 147 ordini esecutivi). Lo strumento peculiare nelle mani del potere esecutivo ha assunto sempre maggiore importanza con il tempo, diventando uno dei mezzi attraverso cui il Presidente asserisce la propria superiorità rispetto agli altri rami di governo e mina irreparabilmente il sistema di bilanciamento dei poteri.
Gli ordini esecutivi sono stati utilizzati da Trump in modo così radicale da trasmettere la scontatezza di una totale indipendenza del potere esecutivo rispetto al legislativo e al giudiziario, ricordando teorie e convinzioni storicamente proprie dell’area politica di riferimento del Presidente. Secondo queste, tanto in campo interno quanto in campo internazionale il Presidente degli Stati Uniti sarebbe il “solo organo della nazione” (come affermava la Corte Suprema in United States v. Curtiss-Wright, storico caso del 1936 concernente i limiti del potere esecutivo).
Eppure, seguendo la logica dei meccanismi di check and balances – anch’essi alla base dell’identità costituzionale americana – entrambi i rami di governo verranno chiamati, alla firma dell’ordine esecutivo, a provare a limitare un tale esercizio del potere presidenziale, infondato nella storia e nella giurisprudenza.
Per quanto è probabile che una tale atto di materiale modifica della Costituzione non passerà il vaglio del Congresso (essendo richiesto un voto di due terzi alla Camera e al Senato, oltre che la ratifica da parte di tre quarti delle legislature statali), la storia politica degli Stati Uniti suggerisce come scontro nettamente più interessante e che si profilerebbe all’orizzonte quello tra presidenza e Corte Suprema – o meglio, quello che la presidenza innesterebbe all’interno del supremo organo giudiziario stesso.
Da un lato, infatti, il Paese si trova a dover fare i conti quotidianamente con una Corte Suprema che, da tempo, ha abbandonato il campo di pura interpretazione costituzionale per tramutarsi in un ulteriore organo politico e politicizzato. La Corte Suprema di oggi è marcatamente conservatrice oltre che trumpiana, tenendo ulteriormente conto delle discutibili posizioni espresse in occasione dell’ultima grande sentenza emessa nel 2024 dall’organo, Trump v. United States. Dall’altro, la chiarezza – alcuni direbbero originalista – del linguaggio del XIV emendamento porrebbe la Corte Suprema di fronte a un conflitto profondo: rex non potest peccare nuovamente (come rivendicato in Trump v. United States dal giudice presidente Roberts). Oppure in questo caso la difesa del significato e dell’intento originale della Costituzione avrebbero la meglio, impedendo così al presidente Trump qualsiasi modifica di un diritto cristallino?
A rendere ancora più di difficile concretizzazione la lotta di Trump è la storica sentenza del 1898 – considerata la decisione che ha chiarito una volta per tutte il diritto alla cittadinanza per nascita – United States v. Wong Kim Ark, con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rimarcato l’automaticità insita nelle parole del XIV emendamento. Per quanto Trump parli di una “volontaria interpretazione errata della legge” e di “mito storico” rispetto al diritto alla cittadinanza per nascita, giuristi conservatori e liberali sono tendenzialmente concordi nell’affermare che non c’è “storia né tradizione in grado di supportare un tale ordine esecutivo”.
Ovviamente, in campo conservatore emergono comunque voci fuori dal coro e a cui l’amministrazione si appella nella ricerca preventiva di vie di successo alternative. Ciò su cui, infatti, l’entourage del presidente Trump sta spingendo è un’ipotetica erronea interpretazione del passaggio del XIV emendamento sez. I che fa menzione del dover essere sottoposti alla giurisdizione americana per essere cittadini della Federazione.
Secondo i detrattori del diritto alla cittadinanza per nascita, infatti, i padri fondatori non avrebbero inserito una tale clausola se avessero voluto una effettiva automaticità nell’attribuzione della cittadinanza. Tra le scarse prove a supporto della visione trumpiana c’è una decisione della Corte Suprema risalente al 1884. Secondo questa, John Elk, nato negli Stati Uniti, era stato dichiarato non titolare della cittadinanza statunitense in quanto membro di una tribù nativo-americana e, pertanto, all’epoca non soggetto alla giurisdizione degli Stati Uniti.
La retorica su cui il presidente Trump cerca di spingere al fine di raccogliere più sostegno possibile è, ovviamente, legata a doppio filo al tema dell’immigrazione. Eric Ruark, a capo della ricerca per NumbersUSA (un’organizzazione impegnata nel lobbying contro i fenomeni migratori) ha fornito all’amministrazione immagini evocative e che supportano a pieno a politiche repressive. La narrazione che si vuole alimentare, infatti, è quella di masse di migranti che attraversano il confine statunitense solo per avere figli a cui attribuire la cittadinanza americana. Per Trump si tratta del principale problema e, per questo, nell’ordine esecutivo chiarirebbe che i figli di persone che si trovano illegalmente negli Stati Uniti “non dovrebbero ricevere passaporti, numeri di previdenza sociale o avere diritto ad alcuni benefici assistenziali finanziati dai contribuenti”. Una posizione che, quasi certamente, porterà a numerosi contenziosi.
Quella di Trump non è la prima presidenza conservatrice contemporanea a contestare il diritto alla cittadinanza per nascita. Certamente meno sfrontata e plateale sul tema, l’amministrazione di George W. Bush ha previamente tentato di imboccare la strada giudiziaria per contestare l’automaticità del XIV emendamento. In occasione del caso Hamdi v. Rumsfeld del 2004, discusso davanti alla Corte Suprema, l’accademico John Eastman co-produsse un amicus brief in cui esortava la Corte a dichiarare che Yaser Esam Hamdi – accusato, sulla scia dell’11 settembre, di essere un “nemico combattente” – non era un cittadino statunitense perché i suoi genitori erano cittadini stranieri che si trovavano negli Stati Uniti con visti temporanei al momento della sua nascita.
Nonostante l’impegno profuso da Eastman, già dalla prima riga della decisione la Corte Suprema chiariva che il caso riguardava solo ed esclusivamente la “legale detenzione (o meno) di un cittadino degli Stati Uniti sul suolo americano in quanto supposto nemico combattente”, rinnegando così che il tema della cittadinanza potesse essere anche solo vagamente in discussione.
Cosa è cambiato dal 2004? L’assetto stesso della Corte, che oggi vanta tre nomine ad opera di Trump – i giudici Gorsuch, Kavanaugh e Barrett – affiancate a giudici ancora più radicali come Samuel Alito e Clarence Thomas. Per quanto questa Corte abbia già dimostrato piena affinità con gli afflati reazionari dell’esecutivo, sul tema del diritto alla cittadinanza per nascita potrebbe sorprendere. D’altro canto, la nomina che più ha spaventato sul fronte dei diritti, quella di Amy Coney Barrett, ha già stupito in occasione della sentenza Trump v. United States quando, a fronte di un completo asservimento dell’organo alla difesa di una supposta immunità presidenziale, anche Barrett ha dovuto parzialmente dissentire in coerenza e linearità con la Costituzione e lo spirito statunitense di bilanciamento dei poteri. Se la chiarezza del XIV emendamento la spingerà nuovamente a rifiutare qualsiasi forma di politicizzazione del ruolo, è tutto da vedere.