Il crollo di Andrew Cuomo
L'ex governatore aveva sperato di rilanciare la sua carriera politica, fallendo miseramente e portando con sé (forse) il resto dell'establishment

Le primarie per scegliere il candidato democratico a sindaco di New York sono sempre il primo contest elettorale interessante dopo ogni tornata di presidenziali, perché danno un’indicazione sulla direzione imboccata dal Partito alla luce dei risultati del novembre precedente. Quest’anno la corsa è da guardare con particolare attenzione, visto che lo scorso novembre in città i democratici hanno ricevuto mezzo milione di voti in meno rispetto al 2020. Come questo risultato viene assimilato dagli elettori newyorchesi avrà probabilmente conseguenze per tutto il Paese.
Tra i personaggi più di spicco in questo girone di primarie figurava l’ex governatore Andrew Cuomo, l’ex “leone” di Albany che tentava così di uscire dall’oblio politico. Dopo dieci anni alla guida del governo dello Stato, il figlio del celebre governatore Mario Cuomo era stato costretto alle dimissioni nel 2021 a causa di un doppio scandalo che determinò la sua caduta dall’Olimpo del Partito Democratico. Da un lato venne dimostrato come varie scelte nella gestione della pandemia l’anno precedente fossero state disastrose e avessero probabilmente aumentato la mortalità, con annesso insabbiamento volontario da parte dell’amministrazione statale. Dall’altro, poche settimane dopo l’inizio delle polemiche iniziarono ad arrivare, una dopo l’altra, accuse di molestie da parte di più e più donne. Nonostante inizialmente avesse categoricamente escluso la possibilità di dimettersi, alla fine fu costretto a farlo per la pressione mediatica e dell’opinione pubblica. Un vero shock, che pose fine a una carriera fino ad allora brillante, tanto che sembrava un candidato papabile per il 2024. In particolare, la gestione della pandemia gli era valsa una notevole aura: con la sua conferenza stampa quotidiana diventò il volto della lotta al Covid-19 nei giorni di New York City deserta, degli ospedali al collasso per la mole di pazienti, delle fossi comuni a Hart Island e della fuga dei residenti più ricchi verso le seconde case (chi agli Hamptons, chi nei Catskills). Salvo ritorcerglisi tutto contro.
E ora, rieccolo all’attacco. Nonostante i social fossero invasi di materiale targato Mamdani e le strade della città fossero zeppe di volontari e di manifesti pubblicitari, Cuomo è riuscito a costruire una campagna formidabile basandosi su due pilastri: un nome conosciutissimo e il rifiuto della linea progressista che a suo dire avrebbe spianato la strada al ritorno di Trump. La sua campagna, infatti, non aveva un grande contenuto politico o ideologico al suo interno, ma piuttosto si risolveva in un puntare il dito contro l’ala progressista del partito, come a dire “guardate cosa combinano se non ci sono io”. Promesse, più o meno vaghe, di rendere la vita in città più abbordabile si affiancavano a ritratti di una città in crisi profonda, nella morsa di un’ondata di crimine e ostaggio dei manifestanti pro-Palestina: questi i punti cardine della campagna elettorale. Centrale nella sua candidatura, poi, è stato il fattore della notorietà e, in un modo non del tutto dissimile dalla seconda campagna di Trump, un certo richiamo a una nostalgia per i tempi in alla guida dello Stato c’era lui.
Peccato che, come ricordano molteplici testate giornalistiche, uno degli elementi più importanti nella vita di un newyorkese, la metropolitana, fosse in stati disastrosi proprio durante la sua amministrazione (nel 2018, solo il 58 per cento dei treni era in orario). Disastrosa fu l’intera gestione del problema, con una faida pubblica tra Cuomo e l’allora presidente della New York City Transit Authority (NYCTA), il braccio della Metropolitan Transit Authority (MTA) che gestisce i trasporti pubblici, Andy Byford, che si dimise dopo appena due anni al comando dell’agenzia nonostante i notevoli progressi ottenuti. I rapporti con il governatore erano diventati impossibili da tollerare e train daddy – come era stato affettuosamente soprannominato – non poté far altro che andarsene.
Questa storia introduce una questione più grande: il temperamento di Cuomo, un’arma a doppio taglio per il candidato. La sua ricetta politica è sempre stata, fondamentalmente, l’intimidazione, che fosse esercitata da lui personalmente o dai suoi più stretti assistenti. Con arroganza e con il fare di chi si può permettere qualsiasi cosa perché ha il potere in mano, la sua amministrazione ha insultato pubblicamente e minacciato privatamente politici e giornalisti, una strategia che non gli ha portato molte amicizie sincere ma che ha fatto così che, anche ora durante la campagna, moltissimi gli offrissero il proprio sostegno per paura delle conseguenze nei loro confronti se Cuomo venisse eletto. Dall’altra parte, questo stile da uomo forte ha portato a vari successi da non dare per scontati: in uno Stato spesso disfunzionale, si è riusciti a portare a termine grandi opere pubbliche – la ristrutturazione radicale dell’aeroporto LaGuardia, il nuovo Tappan Zee Bridge (ribattezzato non a caso Mario Cuomo Bridge), l’apertura di una nuova, ariosa ala di Penn Station e la prima vera estensione della metropolitana in quarant’anni. Parallelamente, si è anche riusciti a velocizzare l’attività legislativa portando a notevoli progressi in campo sociale ed economico.
Questo mix di esperienza, risultati tangibili e toughness (specialmente quando quest’ultima sembra avere molta presa con il Presidente in carica) era quindi il biglietto da visita con cui Cuomo si (ri)presentava ai newyorchesi, ricevendo buoni risultati nei sondaggi e trovandosi davanti un fronte unito contro di lui: i candidati di ispirazione progressista, sfruttando il meccanismo di voto a scelta multipla, hanno infatti deciso di fare cartello e di sostenersi a vicenda, invitando i loro elettori a non “elencare” Cuomo. Gli elettori potevano infatti esprimere fino a 5 preferenze sulla scheda, numerando i loro candidati; qualora nessuno ottenga la maggioranza assoluta, il candidato con meno preferenze viene “eliminato” e i suoi voti ridistribuiti secondo le indicazioni dei suoi elettori, e così via fino ad ottenere un vincitore.
L’elezione ha rapidamente assunto i tratti di una guerra civile all’interno del partito tra movimenti opposti e antitetici: da un lato, il rappresentante dell’establishment, con esperienza (anche di scandali), ideologicamente moderato, che punta il dito contro i giovani dipingendoli come estremisti responsabili del declino del Partito; dall’altro, una nuova generazione di politici, figli della scuola politica di Bernie Sanders, che sostengono che la ricetta per tornare a vincere non sia tornare al classico neoliberismo riformista à la Clinton, ma che l’unico modo di rispondere al populismo dei repubblicani sia una svolta a sinistra in campo economico per rispondere ai bisogni delle classi lavoratrici.
Nonostante l’enorme vantaggio in termini di finanziamenti e di endorsement da parte di Cuomo, ad avere la meglio è stato Zohran Mamdani, l’esponente di punta di questa coalizione, che era stato accusato da Cuomo in un dibattito di “non avere fatto nulla, non avere ottenuto nulla”. Le sue proposte, trasmesse attraverso una campagna social notevole dal punto di vista qualitativo, sono rivoluzionarie, come autobus gratis e tetto al prezzo degli affitti, e hanno ottenuto grande entusiasmo soprattutto da parte dei giovani. È l’inizio di una nuova era per il Partito, o è solo una fiammata destinata a rimanere circoscritta nel luogo e nel momento in cui è sorta? E ancora: questa vittoria è il risultato di un sincero entusiasmo per le politiche proposte o di un rigetto per un candidato tossico? Quanto ha pesato la personalità del candidato Mamdani? È un modello esportabile anche a un contesto non metropolitano? Queste domande, anche se non sono di facile risposta, sono i principali interrogativi per i Democratici dopo questa elezione. Certo è che i risultati restituiscono un quadro complesso da interpretare.
Una precisazione: nel momento in cui questo articolo viene scritto sono stati contabilizzati solo i risultati del primo round, cioè prima della scrematura delle preferenze; per affinità ideologica si può tuttavia supporre che i voti di Lander, il terzo classificato, andranno in larga parte a Mamdani. Nella lettura dei risultati si farà perciò riferimento alla “coalizione progressista” ottenuta sommando le percentuali del primo e del terzo classificato. Per prima cosa, Cuomo ha vinto una maggioranza assoluta dei distretti a maggioranza afroamericana, una ulteriore conferma del carattere moderato di questo elettorato e un potenziale problema per i progressisti, essendo questo uno dei principali gruppi su cui i democratici fanno affidamento per vincere le elezioni. Dall’altro lato, i progressisti sono riusciti a vincere, seppure non di molto, tra i latinos, un elettorato che si è dimostrato molto ballerino negli ultimi dieci anni. Non sono però riusciti a vincere nei distretti più poveri della città, dove Cuomo da solo ha ottenuto quasi il 50 per cento. Le eccezioni ci sono, certo, e Mamdani ha vinto in molte zone tradizionalmente non favorevoli ai progressisti, come Dyker Heights e Bensonhurst a Brooklyn, St. George a Staten Island e Kew Gardens a Queens, ma non ha avuto presa in molti quartieri working class dove Cuomo ha dominato.
Le due fazioni presenti nel partito manifestano, rispettivamente, gioia e sconforto per il risultato di queste primarie, dimostrando quanto il partito sia diviso, tanto che Cuomo ha annunciato che correrà da indipendente per mettere i bastoni tra le ruote a Mamdani. Il mondo della finanza ha reagito con vero e proprio panico: non si contano post di chi si dice pronto a lasciare la città o di chi spiega con sicumera perché le politiche proposte dal candidato democratico porteranno alla distruzione della città. D’altronde, lo stesso board editoriale del New York Times si era espresso negativamente nei suoi confronti. Altri ancora sperano nella rielezione di Eric Adams, il sindaco uscente che è nella corsa come indipendente, rinnegato dal suo ex partito. Insomma, un polverone che mostra quanto sia irrisolta l’identità dei democratici e che, tornando a New York, rende il risultato di novembre meno sicuro, ma ancora più interessante. Resta di certo che la vittoria di Mamdani, e anche il fatto che sia stata così netta, ha un grande valore simbolico. La vecchia guardia, almeno per ora, è in ritirata.