Il Country è di destra?
Negli ultimi giorni, complici canzoni razziste approdate in top chart su Billboard, si è fatto un gran parlare del razzismo sotteso nel Country. È davvero così? Forse solo in parte
If you think you live
In the land of the free
You should try to be
Black like me
(Mickey Guyton – Black Like Me)
Discutere del rapporto tra il country e gli afroamericani non è semplice. Per lungo tempo, e ancora di più oggi che “Try that in a small town” di Jason Aldean ha scalato ogni record su Billboard, si è associato questo genere musicale come il dominio dell’uomo bianco, povero e arrabbiato. Se ti piace la country music tendenzialmente sei un conservatore, soprattutto nel parere di chi non lo ascolta e se ne tiene lontano proprio per la fama. Come per ogni storia complessa, esiste un piano storico e uno mitico: a livello mitopoietico, il country affonda le radici in un genere creato nel Sud rurale dai contadini bianchi, che cantano la semplicità della loro vita e l’orgoglio di essere americani. Questo ha generato nel pubblico un’associazione tra country e working class bianca che non travalica la linea del colore. La realtà storica è invece quella di un tipo di musica originato da innumerevoli commistioni, etniche e di generi; la musica del Sud, che spesso utilizzava il banjo, strumento di chiara origine africana, era un coacervo di elementi jazz, blues e pop.
Quindi, data questa premessa, come è nato il mito? Principalmente per motivi di carattere economico; nel 1920 Ralph Peer lavorava in un’etichetta discografica che non rendeva utili ed era alla disperata ricerca di un artista da contrapporre a quella che, al tempo, era la regina incontrastata del Blues, Bessie Smith. L’obiettivo era costruire a tavolino un genere del Sud e per il Sud che potesse diventare un business come il pop, generando introiti e un intensificarsi dei consumi e delle entrate per le etichette. Nei suoi viaggi al Sud, Peer comprese che per questioni di marketing sarebbe stato più redditizio settorializzare la musica in due comparti stagni; una per neri, che chiamerà “race record”, e una per bianchi, coi motivi sopra menzionati, che fino alla Seconda guerra mondiale si chiamerà “Hillbilly Music”, e poi diverrà più generalmente “Country”. È del tutto evidente che questi limiti tra i due tipi di musica sono qualcosa di artificiale, amplificato poi dall’appropriazione che del genere hillbilly e poi country ne ha fatto il movimento suprematista bianco, che voleva costruire un suono appropriato per la propria etnia, tanto quanto il blues per gli afroamericani.
Pian piano i neri hanno smesso di essere invitati ai festival e di essere registrati, generando l’idea che fosse da sempre esistito un modo ontologicamente bianco e operaio di cantare, e che fosse proprio il country. Il pubblico conservatore ama questa musica perché la associa alla tradizione, e soprattutto alla reazione contro i generi diabolici e anti-americani come Jazz e Rock ‘n Roll. Per questo nei testi si inseriscono richiami politici fin dagli anni ’60: a dire il vero in quel periodo con esponenti di entrambe le fazioni, si cantava infatti sia in modo romantico dell’intervento militare in Vietnam, ma si scrivevano anche inni sulle conseguenze dolorose a livello psicologico di ciò che fu quella guerra - tematica molto vicina al mondo operaio, se pensiamo a “Born in the USA” di Springsteen, rock, progressista e del Nord, ma altrettanto vicino al mondo blue collar bianco; negli anni delle proteste il country più politicamente schierato si avvicinò a Richard Nixon, che lo utilizzò come parte della sua strategia per vincere le diffidenze verso il Partito Repubblicano degli storici Democratici dell’Old South. Con la crisi economica e la presidenza Carter il country divenne più escapista e meno politico nei testi: si è cominciato a parlare più apertamente di lavoratori e piccole gioie, piuttosto che di critiche politiche. Il country apolitico, che si differenzia molto nel metodo da motivi apertamente razzisti, passatisti e conservatori come la tanto discussa “Try that in a small town”, è una ballata leggera che esalta i piccoli piaceri della vita, come un buon bicchiere alcolico, delle macchine veloci e relazioni che funzionano.
Non si può però pensare che appropriarsi e rendere razzialmente connotati suoni che appartenevano a tutta la comunità potesse durare: gli afroamericani nel country sono rientrati, inizialmente in punta di piedi, come Charley Pride negli anni ’70, che vendette molti dischi, trascese il suo colore della pelle e inviava i singoli alle radio senza farsi vedere in faccia per avere più possibilità di essere mandato in onda. Non cercò mai di connotare il suo country in modo diverso, però, accontentandosi di aver avuto successo in un luogo da cui sarebbe dovuto essere escluso. Diversa invece è la nuova ondata di cantanti afroamericani che vogliono fare country senza essere apolitici o chiedere il permesso, e utilizzano il genere come sfida al potere razzista. Alcuni di loro utilizzano suoni country mischiandoli con le melodie hip-hop ed R’n’B; famoso è il caso di “Old Town Road” di Lil Nas X, eliminata dalla classifica “Country” di Billboard perché ritenuta troppo lontana dalla tradizione e dagli stilemi classici, e per questo riregistrata insieme a Billy Ray Cyrus, noto esponente bianco del genere, che ha difeso pubblicamente la canzone come pienamente rientrante negli stilemi del genere. Altri invece, come Mickey Guyton, raggiungono vette di vendite arrivando a nomination a premi importanti come i Grammy cantando apertamente di razzismo e discriminazione – come nel singolo “Black Like Me”, il più famoso della cantante texana.
Abbiamo spesso associato il country a un genere nostalgico, vicino ai ricordi di un Sud agrario, e sicuramente questa è una chiave della sua versione bianca; l’operaio conservatore del Sud vede con dubbio il futuro e preferisce rifugiarsi nei ricordi di una vita semplice, scandita da giri in macchina e al bar e belle ragazze. Allo stesso modo un country afroamericano non può viaggiare sugli stessi stilemi, in quanto i neri in America rifuggono il tradizionalismo: quale può essere la loro mitizzazione del passato, quando la loro condizione è ancora oggi quella di una minoranza discriminata? L’afroamericano trova conforto nel futuro, nella speranza che il progresso porti ventate di uguaglianza e migliori condizioni di vita, spesso generando un mito opposto a quello passatista conservatore.
Oh, and Someday
We’ll all be free
And I’m proud to be, oh,
Black Like Me
(Mickey Guyton – Black Like Me)