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Il 2022 in pillole
Dal salvataggio in extremis di Biden all'ennesima sconfitta di Donald Trump. Un anno pieno di sorprese, ma che offre qualche spunto utile per quelli che verranno.
Il 2022 ha chiarito molti nodi nella politica americana. Dopo che l’anno precedente ci aveva lasciato un Joe Biden in crisi, affaticato dagli acciacchi dell’età e con una popolarità in caduta libera, pressato da un Partito Repubblicano che sembrava avere sciolto il trumpismo in una formula light incarnata dal neogovernatore della Virginia Glenn Youngkin, dove restava di fatto un’opposizione mite ma ferma agli eccessi di alcune politiche scolastiche o culturali, l’anno successivo ha dimostrato che questo scenario era effimero e illusorio.
L’ombra dell’ex presidente Donald Trump è nuovamente calata su un partito che, in un modo o nell’altro, voleva guardare oltre: andando verso la moderazione come Youngkin o verso una nuova visione di radicale confronto con i progressisti come il governatore della Florida Ron DeSantis. Trump ha dimostrato che il GOP è ancora cosa sua. Ha scelto decine di candidati senza badare ad eventuali scheletri nell’armadio o alla loro competenza. Non ha nemmeno badato alle credenziali conservatrici di queste persone: ha buttato nella mischia ex giornaliste locali, ex campioni di football ed ex medici televisivi scelti con l’unico criterio della fedeltà nei suoi confronti. O per meglio dire, della loro piaggeria.
Ha contribuito a trasformare un partito come quello Repubblicano in una sorta di setta personalistica: una formazione politica come quella che ha dato agli Stati Uniti presidenti straordinari e trasformativi come Abraham Lincoln, Teddy, Roosevelt, Dwight Eisenhower e Ronald Reagan, ridotto a un business organizzato intorno al culto del Capo. Anche se adesso molti dei sostenitori di Trump fino all’altro ieri cercano di scaricarlo per unirsi a Ron DeSantis, nuovo leader amato dai polemisti conservatori che porta avanti le politiche trumpiste ma senza gli insulti e le intemperanze di The Donald, queste giravolte indicano un partito in crisi profonda, che ha sacrificato i propri principi e valori per seguire l’unica stella polare degli ultimi anni: mantenere un fisco basso per i redditi più alti, tra i quali ci sono i maggiori finanziatori dei repubblicani. Trump o DeSantis, non cambia molto: basta pagare poche tasse.
D’altro canto, Joe Biden ha mostrato ancora una volta quanto sia un politico da non sottovalutare: ha saputo sfruttare al meglio due maggioranze esilissime per portare avanti una politica estera sicura e continuare il processo di reshoring delle produzioni intermedie che servono a fornire i materiali per realizzare i prodotti tecnologici che usiamo tutti i giorni senza dover più passare dai paesi autoritari.
Ha cercato, e trovato, la collaborazione di una parte dell’opposizione che, pur nella differenza ideologica, ha appoggiato il Presidente nel sostenere l’Ucraina, nel difendere il matrimonio egualitario e nel consolidare la lotta al cambiamento climatico e alla proliferazione illegale delle armi da fuoco.
Il presidente Biden però, pur essendosi dimostrato molto più abile del suo predecessore Barack Obama a negoziare con un Congresso diviso, ha continuato a mostrare preoccupanti segni di affaticamento e di senilità, una debolezza comunicativa irreparabile, e poco carisma. In sintesi: anche se la maggior parte degli americani ha sostenuto le sue politiche e ha dimostrato di preferirlo a Donald Trump conferendogli una maggioranza al Senato e una forte minoranza alla Camera con le elezioni di metà mandato, Joe Biden difficilmente potrà svolgere un secondo mandato senza combattere contro problemi di salute. L’inconsistenza della sua vice Kamala Harris, dimostratasi incapace di affrontare i dossier che le sono stati affidati, apre uno scenario di primarie aperte dove a prevalere potrebbe essere il caos e la nomina di un leader inadeguato e divisivo, sia nel caso che scontenti i progressisti, sia in quello in cui allontani i moderati.
La ricerca di un punto d’equilibrio per il partito potrebbe rafforzare dei Repubblicani in panne che tuttavia potrebbero riprendere fiato grazie alle divisioni nel campo avversario.
“Democrats in disarray”, Democratici nel caos. Questo è stato uno dei talking points ricorrenti tra i commentatori conservatori in questi primi due anni di presidenza Biden, nonostante i risultati ottenuti. Potrebbe però essere ben presto uno scenario maggiormente realistico.
Quindi il 2022 ha definitivamente chiarito quali sono i problemi dei principali partiti americani.
Ha però spazzato via i sostenitori della “grande bugia trumpiana”: il mito delle elezioni rubate che ha minacciato non solo la tenuta della democrazia americana, ma anche la presa sulla realtà da parte di un pezzo di opinione pubblica. Trump ha perso e Biden ha vinto nel 2020 “e nemmeno con un margine troppo risicato”, per citare le parole del leader repubblicano al Senato Mitch McConnell.
Gli americani hanno scelto di credere ai dati reali e non alle elucubrazioni di un candidato che ha problemi ad accettare la sconfitta.
Anche qualora scegliessero di svoltare fortemente a destra (DeSantis potrebbe avere un appeal ben maggiore di Donald Trump), gli elettori statunitensi lo farebbero in modo consapevole. Senza fidarsi di un influencer politico, per quanto esso sia potente.
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