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Tàr di Todd Field, niente è più femminista del potere
Tàr racconta le zone grigie del potere, i rapporti di forza che ne derivano e la facilità con cui i privilegi acquisiti possono essere perduti.
Riconosciamo che il dibattito sull’empowerment femminile si è inceppato. Non siamo in grado di riconoscere alle donne quello che agli uomini concediamo senza remore, e non parlo di privilegi, plausi, riconoscimenti e promozioni, ma di difetti, lati oscuri, mediocrità e incompetenza. L’intero spettro di qualità negative, come l’arroganza, l’insensibilità o la prepotenza, con cui spesso etichettiamo il sesso maschile, ha il potere di togliere lo status di donna a ogni soggetto di sesso femminile che osi manifestarle. Persino Elly Schlein ha dichiarato di non sapere cosa farne di una donna di potere che non sia interessata a migliorare la condizione delle altre donne, perché, e questo lo aggiungo io e non la Schlein, la rottura del soffitto di cristallo ha senso e valore solo se le stanze del potere sono il proseguimento del focolare domestico delle nostre nonne, come se tutti i focolari domestici funzionassero alle stesso modo. Celebriamo l’autodeterminazione, ma delle donne ci aspettiamo solo misericordia, amore e rispetto; autorità e fermezza sì, ma solo se utilizzate a favore di un bene superiore e collettivo che pesti un po’ i piedi agli uomini e migliori la condizione femminile tout court.
Persino il dibattito sulla maternità si è trasformato in una lotta tra due fazioni, da una parte i cantori della figura angelica nata per allattare e dare alla luce e dell’altro i sostenitori della desacralizzazione del ruolo della madre. Anche il confronto sull’aborto conferma sempre il vecchio vizio di dividere chi dibatte in buoni e cattivi con una linea così precisa e netta da far girare la testa. Nessuna forma di complessità, nessuna zona grigia, nessun tentennamento, nessuna contraddizione. Nessuno, se non poche e flebili voci nel deserto, che si renda conto di come non esista nessuna regola che dia forma a quello che tentiamo di incasellare con tanta sicurezza e spocchia. Le donne non remano nella stessa direzione per il semplice fatto di essere donne, non fanno il tifo per la stessa squadra, non hanno gli stessi desideri, non sono mamme allo stesso modo, non hanno gli stessi ideali e non hanno le stesse credenze. Se non si inizia a capire che esistono tante esperienze differenti quante sono le donne che le vivono, il dibattito rimarrà sempre inceppato.
Certo, le donne possono, e devono, fornire al dibattito pubblico prospettive differenti, punti di vista che gli uomini neanche si sognano di avere, ma il non rispettare le nostre aspettative non può spingerci a considerarle alla mercé del mondo maschile o finte donne. Allo stesso modo, raccontare le donne nello stesso modo in cui si raccontano da anni gli uomini è forse il primo passo per ridurre le differenze e smettere di pensarci come un ideale. Tàr di Todd Fied fa esattamente questo, racconta le zone grigie del potere, i rapporti di forza che ne derivano e la facilità con cui i privilegi acquisiti possono essere perduti a fronte di accuse gravi e fa questo utilizzando un cast quasi totalmente al femminile. Lidia Tàr è una delle più grandi direttrici di orchestra, è affascinante e stimata, nelle relazioni professionali e sentimentali è ambigua, confonde i due piani, si circonda di collaboratrici che stima ma delle quali è anche attratta, le mette in posizioni di potere sfruttando il proprio fino a quando una di queste si suicida e il suo ruolo e i suoi metodi vengono messi in discussione.
La direttrice di orchestra Marin Alsop ha ammesso di essersi sentita offesa, come donna, come professionista e come lesbica, nonostante il film non si ispiri a nessuna vicenda realmente accaduta e si limiti a raccontare una storia che, se avesse riguardato un uomo, non avrebbe probabilmente insolentito nessuna donna, ma al contrario sarebbe stata utilizzata come pretesto per denunciare gli abusi e i privilegi nel mondo maschile. La Alsop ha inoltre dichiarato che le donne non si meritano di essere rappresentate così, soprattutto nell’ambiente della musica classica, perché, come già spiegato in precedenza, simili racconti inficiano quell’ideale di donna che con fatica continuiamo a difendere e che aggiunge valore al contesto per il semplice fatto di appartenere a un determinato genere. Field però fa altro, non ha la presunzione di raccontare le donne, che qui sono il pretesto per rappresentare la facilità con cui una carriera può essere distrutta quando pensiamo che la vittima ha sempre ragione per il semplice fatto di presentarsi come vittima, ma intende spogliare i rapporti di potere dal genere per raccontarne i meccanismi più perversi e pericolosi.
Sì, un uomo o una donna potenti possono sfruttare la propria posizione per ammaliare i propri sottoposti e offrirgli posti di lavoro, ma cosa succede quanto il sottoposto denuncia questo comportamento? Cosa può capitare quando il meccanismo si inceppa? Chi ha ragione quando sia il sottoposto che il potente sono di genere femminile? Se noi donne vogliamo davvero rompere il soffitto di cristallo, allora non possiamo disinteressarci delle distorsioni che questo tipo di rapporti può produrre, perché non ne siamo più immuni.