"I Dannati", l'America persa tra Conflitto e Natura
Una riflessione sul nuovo docufilm di Roberto Minervini, ambientato negli anni della Guerra Civile


La prima volta che ho sentito parlare di Roberto Minervini avevo 17 anni, era il 2015, e in pochi cinema di Roma proiettavano il suo film documentario "Louisiana (The Other Side)", presentato quella stessa primavera al Festival di Cannes nella sezione "Un Certain Regard".
L'ho visto in un buio cinema di Trastevere, dopo la scuola, con poche persone in sala oltre a me. Fino a quel momento, avevo sempre sognato un'America così profonda, ma l'avevo vista solo in "True Detective" o letta nei libri di Kerouac, quando raccontava dei suoi viaggi verso sud.
Nel film del regista di Fermo, invece, tutto ciò che ho visto era reale: l'isolamento delle realtà rurali, la tossicodipendenza, l'emarginazione, la vera America. Quando sono uscita da quella sala, non riuscivo a smettere di pensare a quel crudo ritratto degli Stati Uniti, che mi turbava e affascinava allo stesso tempo.
Ciò che più mi aveva colpita di quella pellicola, è che fosse frutto della visione di un outsider di quella società: un italiano che era riuscito a immergersi in un mondo altrimenti sconosciuto al di fuori dei confini americani.
Questa tecnica narrativa è stata definita "documentario di creazione", a metà tra un film e una narrazione documentaristica, dove la trama è allo stesso tempo la vita reale dei suoi protagonisti.
Quasi dieci anni dopo, Roberto Minervini è tornato sul red carpet di Cannes con il suo ultimo lavoro “I Dannati”; stavolta una pellicola di finzione e non un docufilm. Premiato per la miglior regia dalla critica del Festival, sempre per “Un Certain Regard”, Minervini ha lasciato la Croisette per tornare in Italia e presentare personalmente il film nelle sale di varie città.
Quando ho letto che sarebbe passato anche per lo storico Cinema Quattro Fontane di Roma, volevo sentirmi di nuovo come la me diciassettenne che per la prima volta vedeva sullo schermo una rappresentazione viscerale e senza filtri della Sua America.
Mi incuriosiva soprattutto scoprire come un regista del reale, si fosse approcciato al mondo del cinema di genere. Infatti “I Dannati”, potrebbe definirsi un film storico: ambientato nel 1862, sullo sfondo della Guerra Civile Americana, segue un plotone di soldati unionisti che vengono mandati in esplorazione verso l’Ovest.
Queste sono le uniche informazioni che il regista usa per descrivere la trama al pubblico, e dopo aver visto il film, ho capito che in effetti non servivano altre parole per raccontare questo prodotto. La guerra in questo film è quasi invisibile; presente solo nelle parole dei protagonisti e ricordata dalle loro uniformi blu. C’è un’unica scena di battaglia, in cui il nemico non si vede nemmeno, spara dall’orizzonte e si sentono solo i fucili esplodere colpi, mentre gli unionisti si difendono.
A fine screening Roberto Minervini è stato accolto in sala, insieme a Jeremiah Knupp, co-autore nonché uno dei protagonisti del film, e il produttore di Rai Cinema Paolo Benzi. Il regista parla della guerra come un concetto disumanizzante, e di come volesse rappresentarla privandola di qualsiasi esaltazione della mascolinità militare, tipica dei film bellici americani.
In questo film non ci sono patriottici soldati, ma ci sono degli uomini stanchi e spaventati, che passano dal campo di battaglia alle terre selvagge, ricordando il concetto di frontiera e dell’esplorazione dell’ignoto dei primi pionieri. Giovani, adulti e vecchi viaggiano insieme in carovana, e man mano che continua il loro viaggio, dialogano in modo sempre più intimo, condividendosi storie, timori e speranze. Il regista specifica che i dialoghi erano costruiti dai personaggi reali, o i “non attori” del film, che nelle vesti dei loro protagonisti portavano avanti confronti e conversazioni autentiche. Inoltre, il film è montato cronologicamente, mostrando nell’arco temporale della sua durata, come gli attori siano progressivamente entrati in confidenza tra loro. Parlano di guerra, di Dio, di futuro e del loro Paese; se non indossassero i berretti con lo stemma dell’Unione, le loro parole potrebbero facilmente adattarsi alla nostra realtà quotidiana.
In questa loro esperienza, gli attori vengono ripresi sempre molto da vicino, con il grandangolo, e utilizzando una messa a fuoco che non inquadra mai più un personaggio per volta. Anche in questo film, Minervini applica una tecnica documentaristica che segue i protagonisti, nel vero senso della parola, riprendendoli alle spalle, come se camminasse dietro di loro, o di profilo, come se gli fosse seduto accanto. L’autore parla di “cinema esperienziale”, che coinvolge lo spettatore all’interno della scena.
Nel momento di confronto con il pubblico, ho chiesto a Jeremiah Knupp del rapporto tra l’uomo e la natura che hanno voluto portare sullo schermo, e che il co-autore definisce “gerarchico”. Mi ha spiegato l’idea di mostrare un progressivo scambio di ruoli, che inizia con l’uomo dominante, che si impone sull’ambiente circostante, per finire invece con una natura che prevale. A chiudere il film è infatti la scena di una nevicata alla quale i soldati si abbandonano, quasi a loro agio, e abbassano la guardia per la prima volta dall’inizio della pellicola.
A Minervini, ho invece domandato come un regista di docufilm potesse girare una pellicola basata su un racconto di finzione. Mi risponde che il suo approccio creativo non è cambiato; anche in questo ultimo lavoro non esiste una sceneggiatura, ma solo la volontà di creare un’interazione spontanea tra gli attori, la scena e l’ambientazione. Un’atmosfera in cui i vari elementi del film coesistono armoniosamente; lo stesso che succedeva ai protagonisti di "Louisiana" mentre festeggiavano il 4 luglio immersi nelle paludi del Bayou, o ai fratellini di "What You Gonna Do When The World Is On Fire?", che trascorrevano le giornate vagando per i sobborghi di New Orleans.
Gli chiedo inoltre quale realtà sociale vorrebbe rappresentare se dovesse girare ora un documentario ambientato negli Stati Uniti. Minervini mi risponde di avere altre ambizioni, forse di tornare a girare in Italia, e di essere ormai stanco di questa America. Un’affermazione che non mi aspettavo di sentire da qualcuno che è riuscito a raccontarla in modo così intenso e sincero. Il regista argomenta spiegandomi che durante la sua parte di vita americana, ha potuto osservare come la ciclicità della storia ha trasformato l’evoluzione di quella società in un cane che si morde la coda. Gli errori del passato si ripetono, e alcune ferite aperte fina dall’11 settembre non sono mai state rimarginate.
"I Dannati" di Roberto Minervini non si limita a ritrarre solo i soldati della Guerra Civile, ma abbraccia tutte le anime dannate di un'America intrappolata in un ciclo di errori e aspirazioni irraggiungibili.
Confermando le mie aspettative, sono uscita da quella sala pensando che, nonostante la sua natura narrativa, Minervini riesce magistralmente a catturare l'essenza dell'attualità americana, offrendo uno sguardo profondo e penetrante sulle complesse dinamiche sociali e culturali del Paese.