Harris e Trump a confronto: la politica estera
Dalla guerra in Ucraina alle guerre commerciali con la Cina, uno sguardo alle piattaforme dei due candidati
Kamala Harris e Donald Trump si fronteggeranno direttamente martedì 10 settembre in un dibattito moderato dalla rete televisiva ABC, dove potranno finalmente scontrarsi direttamente su temi relativi all’economia, all’immigrazione e ai diritti riproduttivi, le principali preoccupazioni dell’elettorato. Finora, da parte di entrambi i candidati, è stato riservato poco spazio ai temi relativi alla politica estera, che stanno tuttavia tornando a interessare il pubblico americano.
Molte delle posizioni in politica estera di Kamala Harris sono informate da Philip Gordon, ricercatore e docente di relazioni internazionali dal ricco curriculum professionale. Gordon è uno statista pragmatico, dalle posizioni saldamente atlantiche e internazionaliste ma scettico nei confronti dell’utilità della forza come mezzo di proiezione della politica estera statunitense. Veterano dell’amministrazione Obama, si era opposto a chi continuava a sostenere una politica di regime change in Medio Oriente contro il regime dittatoriale di Assad, preferendo un mix di pressioni diplomatiche, economiche ed embarghi. Nonostante la crescente competizione sino-americana, Gordon si è sempre mostrato abbastanza disinteressato alle dinamiche dell’Asia Pacific, mostrando più interesse nella coltivazione della partnership di sicurezza euro-americana.
Le posizioni di Harris ovviamente non si riducono soltanto all’impostazione del suo consigliere. È un’atlantista convinta nel solco bideniano, cosa che ha ribadito in tempi non sospetti come alla conferenza di sicurezza di Monaco dello scorso febbraio, dove ha sottolineato con convinzione l’importanza del sostegno statunitense alla resistenza ucraina. Nel Pacifico, è stata spesso protagonista di importanti summit multilaterali per portare avanti l’attività di coalition building americana volta a contrastare l’influenza cinese nell’area. In particolare, ha presieduto il primo, storico summit trilaterale Usa-Giappone-Filippine, la prima catena di isole ad affacciarsi sulla costa cinese.
In questi mesi si è molto discusso sul posizionamento di Harris riguardo al conflitto israelo-palestinese. Rispetto al presidente Joe Biden, Harris ha spesso espresso critiche di vario livello verso la condotta delle forze armate israeliane e l’altissimo costo umano patito dalla popolazione civile di Gaza, spingendo fortemente per un cessate il fuoco permanente. Nonostante ciò, Harris ha una rapporto tempestoso con l’Uncommitted National Movement, la principale organizzazione pro-Pal negli Stati Uniti. Uncommitted ha registrato aperture da parte della campagna Harris, non riuscendo tuttavia a ottenere la possibilità di mandare un portavoce alla Democratic National Convention di Chicago: la campagna Harris è ancora diffidente delle ali più estreme del movimento filopalestinese e della loro retorica fin troppo morbida verso Hamas.
La piattaforma di politica estera di Donald Trump, o almeno quello che se ne può evincere dagli interventi multiforme del candidato repubblicano, ricalca la sua precedente esperienza governativa. Trump cerca di imporsi come candidato super-protezionista, imponendo un maxi-dazio universale su tutti i prodotti importati. C’è poca enfasi sulle probabili ricadute economiche negative di un piano simile, nella retorica trumpiana, che rimane imperniata sulla necessità di raggiungere un «trattamento equo» per l’industria americana, retorica che in passato ha caratterizzato le poco fortunate guerre commerciali contro la Cina.
Trump non appare particolarmente preoccupato dall’imporsi, a livello globale, di diverse potenze autocratiche. Sul conflitto russo-ucraino spinge da tempo per una linea ambigua, accusando Biden e il Partito Democratico di non aver compreso le ragioni di Putin e di non stare lavorando per una soluzione diplomatica al conflitto. Trump ha criticato in più occasioni le sanzioni imposte alla Russia dalla coalizione occidentale, accusandole di essere nocive per l’economia americana e globale.
Molto più chiaro è invece l’appoggio di Trump al governo di Benjamin Netanyahu in Israele, con cui aveva già coltivato un ottimo rapporto da presidente con decisioni controverse quali lo spostamento dell’ambasciata statunitense nel Paese da Tel Aviv a Gerusalemme. Trump ha criticato chi ricerca un cessate il fuoco a Gaza, definendo tale attitudine antisemita e favorevole al riarmo di Hamas. Nonostante l’esistenza di un nutrito blocco di elettori arabi del partito repubblicano, Trump ha anche usato più volte la parola palestinese come insulto contro esponenti dell’amministrazione Biden, quasi a voler legare semanticamente la “sfortuna” della popolazione araba con una supposta debolezza dei suoi avversari.
Non è chiaro di quanto e in che forma, esattamente, si discuterà di politica estera in occasione del dibattito presidenziale di martedì 10 settembre, che rimane tuttavia una grandissima occasione per riportare i temi internazionali all’attenzione dell’elettorato.