Una diplomazia a tutto gas
L’amministrazione Trump punta a rilanciare le fonti fossili ed esorta gli altri Paesi a fare lo stesso
La campagna di Donald Trump per la liberazione dell’energia americana procede a spron battuto. Dal 20 gennaio l’amministrazione statunitense continua a lavorare alacremente per rispondere all’emergenza energetica nazionale proclamata dal presidente il primo giorno del suo secondo mandato. Quest’ultimo, per certi versi, sembra più improntato all’interventismo che al disimpegno sul piano della diplomazia climatica. Questa volta Trump non si limita ad abbandonare programmi e negoziati per la riduzione delle emissioni climalteranti e a concentrarsi sulle politiche energetiche domestiche: pare anche intenzionato a spingere altri Paesi ad allentare i loro obiettivi climatici e rilanciare le fonti fossili. Ancor meglio se si tratta di combustibili di provenienza americana.
L’annuncio del ritiro dall’accordo di Parigi, effettivo dal prossimo 27 gennaio, è stato solo l’inizio. A febbraio l’amministrazione Trump ha annullato gli impegni presi dagli Stati Uniti nell’ambito del Green Climate Fund delle Nazioni Unite, fondo che aiuta i Paesi in via di sviluppo a finanziare progetti di adattamento e mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici, ritirando circa 4 miliardi di dollari di sostegni promessi. Il mese successivo ha formalizzato l’abbandono della Just Energy Transition Partnership, iniziativa lanciata in occasione della Cop26 di Glasgow nel 2021 per aiutare le economie emergenti ad abbandonare il carbone e sostituirlo con fonti energetiche rinnovabili. Gli Stati Uniti erano uno dei maggiori finanziatori, con impegni per oltre 3 miliardi di dollari in gran parte sotto forma di prestiti, destinati a Vietnam e Indonesia e poco più di un miliardo al Sudafrica.
Visti i risvolti degli ultimi mesi, non sembra corretto parlare di semplice disimpegno. Al contrario, la strategia di Washington punta a promuovere un deciso cambio di passo nello scenario globale, anche a suon di pressioni e minacce.
Ad aprile, dopo anni di complessi negoziati, l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) è riuscita a raggiungere un accordo sul testo di un regolamento che prevede di imporre una tassa sulla CO2, a partire dal 2028, a tutte le navi che supereranno determinate soglie limite di emissione. L’adozione formale della bozza è prevista per ottobre, durante la prossima sessione dell’IMO. Gli Stati Uniti non si sono limitati a defilarsi dalle trattative, in primavera, ma hanno già lanciato i primi avvertimenti: tutti i Paesi che sosterranno l’accordo potrebbero subire ritorsioni. In una nota diffusa ad agosto, il Segretario di Stato Marco Rubio e i segretari al Commercio, all’Energia e ai Trasporti hanno dichiarato che «il quadro proposto è di fatto una tassa globale sul carbone per gli americani, imposta da un’organizzazione irresponsabile», invitando gli altri Stati membri dell’IMO a opporsi. Chi voterà a favore dell’accordo potrebbe incorrere in dazi, tariffe portuali e restrizioni in materia di visti da parte degli Stato Uniti.
Sempre ad agosto, a Ginevra, in occasione dei negoziati promossi dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) per definire un accordo globale contro l’inquinamento da plastica, la delegazione statunitense si è unita al blocco delle nazioni convinte che l’iniziativa dovrebbe riguardare solo la gestione dei rifiuti, dichiarandosi contrarie all’adozione di un trattato che imponga di limitare la produzione di prodotti in plastica. Secondo i piani dell’UNEP l’accordo avrebbe dovuto essere raggiunto entro il 2024; invece, anche l’ultima sessione negoziale si è tradotta in un nulla di fatto. In questa occasione gli Stati Uniti non hanno abbandonato il tavolo delle trattative, anzi, hanno deciso di prendere una posizione netta.
A confutare la tesi del mero disimpegno è anche la constatazione che quasi tutti gli accordi commerciali che l’amministrazione Trump sta stringendo con gli altri Paesi, nella maggior parte dei casi volti a mitigare i dazi, impegnano le controparti ad acquistare petrolio e gas dagli Stati Uniti. Un esempio lampante è l’accordo raggiunto con l’Unione Europea, che si è impegnata a comprare prodotti energetici americani (inclusi petrolio, gas naturale e combustibile per reattori nucleari) per un valore atteso di 750 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi tre anni. L’intesa preoccupa diversi Stati membri, perché potrebbe confliggere con gli ambiziosi piani europei di decarbonizzazione e riduzione delle fonti fossili.
Ma Bruxelles non è l’unica ad aver sottoscritto impegni del genere. La Corea del Sud ha promesso di acquistare dagli Stati Uniti prodotti energetici per 100 miliardi di dollari, seppur non indicando entro quale lasso di tempo. Il Giappone invece si è impegnato a investire 550 miliardi di dollari negli USA, concentrandosi su infrastrutture e produzione energetica, compresi gas naturale liquefatto (GNL), carburanti avanzati e interventi di modernizzazione delle reti. L’amministrazione statunitense ha affermato che i due Paesi stanno anche pianificando un’espansione delle esportazioni di energia dirette a Tokyo. In ogni caso, non è ancora chiaro se e come l’Unione Europea e gli Stati che hanno siglato simili accordi commerciali con gli Stati Uniti possano tenere fede alla parola data.
Ulteriore conferma della nuova postura adottata da Washington è il fatto che le esternazioni dei membri del governo sulla dannosità delle fonti rinnovabili valicano sempre più spesso i confini della politica interna. La battaglia più strenua è quella che Trump sta portando avanti contro gli impianti eolici offshore, con l’aiuto di diversi ministeri incaricati di studiarne i rischi per la salute umana e la sicurezza nazionale (la tesi è che le pale eoliche possano interferire con i radar militari). Il presidente non intende limitare la propria ostilità per l’eolico al solo territorio nazionale e ha dichiarato apertamente il suo tentativo di educare le altre nazioni sui rischi di questa fonte. Il suo auspicio è che gli Stati che continuano a investirci smettano di «distruggersi» e «tornino ai combustibili fossili».
A luglio, durante un incontro con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen in Scozia, Trump ha etichettato l’eolico come una «truffa», riproponendo la tesi che le turbine eoliche fanno «impazzire gli uccelli», suo cavallo di battaglia. Quella stessa settimana, con il primo ministro del Regno Unito Keir Starmer, ha descritto il vento come «un disastro». Dal podio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 23 settembre, si è scagliato contro le politiche climatiche e le energie rinnovabili, sostenendo che gli impianti eolici siano «patetici» e che l’impronta di carbonio sia solo una bufala. «Se non ti allontani dalla truffa dell’energia verde, il tuo Paese fallirà», ha affermato, aggiungendo che «l’energia e l’immigrazione stanno distruggendo l’Europa».
Se il presidente non perde occasione di sparare ad alzo zero, il segretario all’Energia Chris Wright non è da meno. Durante il suo recente viaggio a Bruxelles ha esortato l’Europa a smettere di preoccuparsi per i cambiamenti climatici e di sovvenzionare le energie rinnovabili. La via maestra è il gas, ovviamente di provenienza statunitense.
Stando alle ultime rivelazioni del Financial Times, il governo americano starebbe anche facendo pressione sulla Banca mondiale e altre banche multilaterali per spingerle a finanziare progetti legati a petrolio e gas.
Insomma, altro che disimpegno.