Terre rare: una questione di potere
La lotta per le risorse energetiche nella guerra fredda tecnologica tra USA e Cina.
Rare Earth Elements, classificati con l'acronimo internazionale “REE” e meglio conosciuti come Terre Rare. Sulla tavola periodica sono 17 elementi, quasi tutti scoperti in epoca recente, fra il XIX ed il XX secolo. Lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), promezio (Pm), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb), lutezio (Lu): ricordarne i nomi è un vezzo scientifico, ma oramai l'importanza cruciale di questi metalli è invece ben nota a tutti.
A dispetto del nome, parliamo di metalli presenti in abbondanza sul suolo terrestre, ma che richiedono procedure d'estrazione assai complicate e ad alto impatto ambientale. Due evidenze che portano già ad altrettanti paradossi. Da un lato infatti vi è l’inevitabilità dell’enorme costo ambientale pagato per l’estrazione delle terre rare, oggi indispensabile alle industrie che trattano energia rinnovabile, come quella eolica ed elettrica. Gli stessi elementi chiave della transizione energetica, richiedono al contempo un dazio elevatissimo in termini ecologici.
Il secondo paradosso è, poi, quello dell'irrisorio tasso di riciclo di questi materiali. Nonostante si tratti di una delle principali attività economico-industriali in termini di occupazione e produzione, solo l'1% delle terre rare viene riciclato. L’incapacità di gestire una processo così poco sostenibile, mal si coniuga con l’esistenza di modelli di evidente scarsità artificiale e ben si accompagna all’idea che l’obiettivo di fondo sia esclusivamente il profitto, peraltro incentivato da fenomeni come l'obsolescenza programmata.
La tech industry è oggi sostanzialmente l'architrave socio-economica della nostra civiltà, avendo costruito gli ultimi vent'anni della società globale attorno ad essa. Basterebbe pensare all'alta concentrazione di REE nell'industria tecnologica e nelle nostre vite: touchscreen, microchip, computer, televisioni, circuiti elettrici. In ciascuno di questi elementi l'utilizzo di metalli afferenti alla famiglia delle terre rare è altissimo. Risulta dunque semplice osservare come le terre rare siano tanto la chiave di volta nella supremazia nei settori strategici, quanto elementi essenziali per immaginare nuovi modelli produttivi. In poche parole: chi ha le terre rare, ha il potere.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes, definisce la Geopolitica come «L'analisi dei conflitti di potere in spazi determinati». Abbiamo un elemento di potere, le terre rare, e uno spazio determinato, il pianeta, ne discende che naturalmente la questione dei REE diventi anche e fondamentalmente una questione geopolitica. Analizziamone perciò il terzo elemento necessario ai fini di un'analisi di questo tipo: gli attori del conflitto. La parte del leone è tutta della Repubblica Popolare Cinese. Pechino controlla circa l'80% del patrimonio mondiale di terre rare, direttamente o tramite la fitta strategia di penetrazione tecnologica e commerciale attuata nei confronti di paesi terzi.
Le terre rare per la Cina sono essenziali ai fini delle proprie velleità egemoniche: consolidare la propria posizione di monopolista nel settore dei metalli rari significherebbe infatti detenere un potere contrattuale non indifferente nei confronti delle altre potenze, controllando sostanzialmente l'approvvigionamento delle principali risorse alla base di industrie strategiche come quella high-tech, ma anche e sopratutto quella militare, legata a doppio filo alla prima. Senza contare, inoltre, l'indispensabilità dei REE nel campo delle industrie energetiche, che permetterebbe al dragone di strozzare le ambizioni occidentali, sulle quali si sta cercando di ricostruire in qualche modo uno Zeitgeist, una traiettoria comune in un mondo, quello europeo e americano, che soffre immensamente la disgregazione socio-culturale. Interrompere il commercio di terre rare potrebbe sostanzialmente portare a segare gambe e testa dell'Occidente.
Il dibattito negli Stati Uniti, non a caso, sta acquisendo sempre più preminenza. Già nel 2020, Donald Trump aveva firmato alcuni ordini esecutivi in materia energetica, segnalando un fattore di emergenzialità sull'approvvigionamento di metalli rari. Negli anni successivi è stato in particolare il Pentagono – l'apparato americano più profondo, cui spetta il compito di perseguire la strategia nazionale ed elaborarne le tattiche – a lavorare per traghettare il Paese verso un'indipendenza da Pechino. La logica di fondo rimane, tutt’ora, quella di rafforzare la propria supply chain nell'ottica tanto di attivare processi di estrazione di metalli rari sul suolo americano (una zona di estrazione attiva di terre rare si trova in California) quanto di affinare anche l'ultima parte della filiera, quella della lavorazione, slegando completamente il ciclo produttivo dall'influenza cinese.
Proprio in questo senso è di grande impatto la proposta di legge bipartisan approdata al Congresso a firma dei senatori Tom Cotton, repubblicano e Mark Kelly, democratico. Il Restoring Essential Energy and Security Holdings Onshore for Rare Earths Act vieterebbe infatti al Pentagono e ai suoi contractors, di siglare contratti per con aziende cinesi a partire dal 2026, sia con riferimento alla filiera degli armamenti e della tecnologia che per quanto riguarda materiali legati alle terre rare.
La Cina, d'altronde, ha già dimostrato in passato di non scherzare minimamente sull'esercizio muscolare del proprio ruolo di monopolista minerario. Nel 2010, a seguito di un incidente diplomatico, il Giappone risentì di una forte contrazione nell'industria elettronica a seguito del taglio di fornitura di metalli rari da parte di Pechino. Il tentativo, dunque, rimane necessariamente quello di scongiurare qualsiasi pericolo a seguito di una possibile escalation della grande guerra fredda tecnologica e commerciale in atto fra le due grandi potenze.