Le big oil al banco degli imputati
Le cause sul cambiamento climatico vanno affrontate nei tribunali statali o a livello federale? La Corte Suprema chiede aiuto al Dipartimento di Giustizia
Per decenni i grandi del petrolio e del gas hanno mentito sull’impatto che bruciare i combustibili fossili avrebbe avuto sull’ambiente, pur essendo pienamente consapevoli del loro enorme contributo al riscaldamento globale. A sostenerlo è un numero crescente di Stati, contee e comuni statunitensi, dalla California al Vermont: a loro avviso, le big oil avrebbero nascosto intenzionalmente la dannosità delle loro pratiche commerciali, dipingendo come ecologici prodotti che non lo erano affatto, ed è giunto il momento che paghino per i danni che hanno causato.
Sulla base di queste premesse, sempre più amministratori locali e statali stanno contribuendo ad alimentare il filone della climate change litigation, il lungo elenco delle azioni legali motivate da preoccupazioni correlate ai cambiamenti climatici. Secondo il Center for Climate Integrity, attualmente negli Stati Uniti si contano 33 cause pendenti contro le big oil, molte delle quali avviate con l’obiettivo di evidenziare la loro responsabilità nell’aver ingannato l’opinione pubblica sull’impatto che i combustibili fossili avrebbero avuto e hanno ancora oggi sul clima. La banca dati dell’associazione mostra chiaramente come l’avvio di azioni giudiziarie riguardanti la crisi climatica, o volte a ottenere un risarcimento dei danni provocati dalle aziende, sia una pratica sempre più diffusa tra le amministrazioni pubbliche, tanto a livello municipale quanto a livello statale.
La climate change litigation rappresenta però un fenomeno ancora nuovo, e pone i giudici di tutto il mondo di fronte a questioni di metodo e di merito mai affrontate in precedenza. È proprio a causa di questa incertezza che nessuno dei contenziosi passati in rassegna dal Center for Climate Integrity è ancora arrivato a processo. Il modo in cui si evolveranno e le decisioni che verranno prese dai giudici in questi anni faranno scuola.
Tra gli interrogativi che animano il dibattito negli Stati Uniti ce n’è uno, in particolare, che ha messo in difficoltà persino la Corte Suprema, talmente complesso che i justices hanno ritenuto opportuno chiedere aiuto al Dipartimento di Giustizia. A chi spetta decidere se un’azienda debba o meno risarcire un comune, una contea o uno Stato per danni al clima? Finora funzionari locali e Governatori hanno deciso di rivolgersi ai tribunali statali, ma secondo l’industria energetica le questioni sollevate sarebbero di competenza federale.
Il dibattito sul tema si è riacceso nelle ultime settimane, attorno ad un contenzioso avviato quattro anni fa. Nel 2020, la città e la contea di Honolulu hanno citato in giudizio quindici importanti compagnie petrolifere e del gas sostenendo che avessero ingannato gli hawaiani sul reale impatto che le loro attività avrebbero avuto sul clima. L’arcipelago è infatti una delle aree maggiormente funestate dalle conseguenze della crisi ambientale, destinato a fare i conti soprattutto con l’innalzamento del livello del mare, come tutti i piccoli Stati insulari. Sin dalle prime fasi del contenzioso, la città e la contea di Honolulu hanno ricevuto l’esplicito supporto della California e di altri dodici Stati a guida democratica, quasi tutti impegnati in controversie analoghe.
Di fronte alle accuse delle autorità hawaiane le big oil si sono rivolte alla Corte Suprema dello Stato, lamentando che il compito di decidere sulla questione spettasse ai giudici federali. Le aziende hanno sottolineato che il riscaldamento globale, essendo un fenomeno che per definizione va oltre i confini dei singoli Stati, impone l’applicazione delle leggi federali e non può essere affrontato scatenando decine e decine di cause locali. I giudici hanno però respinto le loro doglianze, spiegando che in realtà i funzionari di Honolulu non mirano a ottenere dei risarcimenti per le emissioni di gas a effetto serra generate dalle aziende. Il caso riguarda piuttosto la protezione dei consumatori dai comportamenti ingannevoli messi in atto per nascondere gli effetti negativi dell’uso dei combustibili fossili. Per queste ragioni, e considerando il fatto che la tutela dei consumatori è un’area tradizionalmente regolata dagli Stati, la Corte Suprema delle Hawaii ha deciso che il caso deve essere affrontato a livello statale.
A questo punto, le quindici aziende citate in giudizio non hanno avuto altra scelta che ricorrere al gradino più alto della giustizia americana. Con una lunga e articolata petizione, Sunoco e le altre compagnie coinvolte hanno chiesto alla Corte Suprema di intervenire e mettere nero su bianco, una volta per tutte, che il cambiamento climatico è un fenomeno globale e una questione di diritto federale, non adatto a rivendicazioni statali. Negli scorsi anni, diverse compagnie petrolifere avevano già provato ad appellarsi ai justices per ottenere che le cause in cui erano protagonisti fossero discusse a livello federale anziché statale, ma tutti i loro tentativi sono andati a vuoto. Quest’ultima petizione, invece, è stata presa in considerazione tra le migliaia di istanze di certiorari che la Corte Suprema riceve ogni anno. Diversi giuristi hanno ritenuto insolita la decisione dei giudici di valutare la richiesta delle big oil, visti i tentativi fallimentari del passato, e il merito, a loro avviso, è delle pressioni sempre più forti esercitate sulla Corte da una rete di politici e procuratori di orientamento repubblicano. Dietro l’attenzione che i giudici hanno deciso di dedicare al caso, ci sarebbero la rete di Leonard Leo e venti procuratori repubblicani, da mesi impegnati a difendere la posizione delle aziende.
Vista la complessità della questione, tale da costituire un precedente cruciale anche per tutti gli altri contenziosi climatici in corso nel Paese, la Corte Suprema ha preferito temporeggiare, invocando l’aiuto del Dipartimento di Giustizia. Il 12 giugno, i giudici hanno chiesto all’amministrazione Biden di condividere le proprie opinioni in merito al caso; tutti tranne uno, Samuel Alito, che non ha partecipato all’esame della petizione. L’ordine emanato dalla Corte non giustifica in modo esplicito l’esclusione di Alito dal dibattito, ma probabilmente è dovuta al fatto che il giudice possedeva alcune azioni della ConocoPhillips, una delle compagnie citate in giudizio dalle autorità hawaiane.
Adesso non resta che capire in quale direzione andrà il parere del capo dell’Avvocatura generale, Elizabeth B. Prelogar, e in che misura verrà preso in considerazione dai justices. Ciò che è certo è che dalla decisione della Corte Suprema non dipende solo il futuro della causa intentata da Honolulu contro le big oil, ma il destino di tutta una serie di controversie legali avviate in diverse aree degli Stati Uniti, dalla California al Connecticut. Stati e città possono chiedere alle compagnie petrolifere di risarcire i danni derivanti dalle loro attività e dalle loro ingannevoli campagne di comunicazione? Alla Solicitor general la prima ardua sentenza.