E se oscurassimo il sole?
La geoingegneria attrae sempre più investitori nella Silicon Valley. I rischi ambientali delle soluzioni proposte sono ancora del tutto ignoti
È una mattina come tante nella Silicon Valley. Un cielo azzurro sovrasta le colline che incorniciano San Jose, nel cuore della valle di Santa Clara, e una ventina di persone si è radunata per assistere alla piccola impresa di una startup molto particolare. Tra loro c’è anche una bambina di sette anni, raggiante, con gli occhi pieni di speranza per il futuro. Luke è fermo davanti al portellone posteriore del suo van grigio e ha in mano un involucro in lattice che Andrew, il suo socio, sta collegando con un tubicino a una delle bombole di gas pressurizzato stipate a bordo, accanto a un mucchio di droni, cavi e altre attrezzature. Un po’ di anidride solforosa, un po’ di elio e l’involucro si trasforma lentamente in un pallone. Inizia a levitare, è pronto a partire. I due lo sigillano e lo agganciano a un piccolo paracadute rosso che sorregge una microcamera e una scatoletta bianca contenente localizzatori Gps e altri sensori. Lo passano alla bambina che 3, 2, 1… lo lascia andare e lo osserva spiccare il volo estasiata: le hanno spiegato che con quel semplice gesto contribuirà a rallentare il riscaldamento globale.
Il pallone salirà sempre più in alto, finché non sarà più visibile a occhio nudo, e salendo comincerà a espandersi, al diminuire della pressione dell’aria, fino a scoppiare. A quel punto lascerà andare la nuvola di anidride solforosa che ha portato con sé e la abbandonerà nell’atmosfera, dove rimarrà per almeno sei mesi – tre anni nella migliore delle ipotesi. Da lì rifletterà i raggi solari, raffreddando la Terra. «È come applicare la crema solare al pianeta», spiegano Luke e Andrew ai presenti. La loro missione è manomettere il termostato per guadagnare tempo, la risorsa più scarsa che abbiamo quando parliamo di lotta alla crisi climatica.
Luke Iseman e Andrew Song si sono conosciuti a San Francisco nel 2015 e pochi anni dopo hanno deciso di fondare Make Sunsets, convinti che la geoingegneria possa rappresentare un’ottima alleata per il pianeta. La loro startup vende crediti di raffreddamento e per soli dieci dollari promette di compensare gli effetti generati dall’emissione di una tonnellata di CO2 nell’arco di un anno. Ogni acquisto garantisce il rilascio di almeno un grammo delle loro “nuvole” di anidride solforosa nella stratosfera. Periodicamente liberano i loro palloni biodegradabili nei cieli della Silicon Valley e attendono con ansia l’atterraggio del paracadute e della strumentazione che li accompagna: se riescono a salire e rimanere integri per oltre venti chilometri, l’emissione del credito di raffreddamento va a buon fine.
È una pratica rischiosa? La complessità del sistema climatico terrestre suggerisce di sì: il rilascio di ingenti quantità di anidride solforosa a lungo andare, ad esempio, potrebbe assottigliare lo strato di ozono, alterare il ciclo dell’acqua e causare piogge acide. La comunità scientifica discute delle implicazioni della geoingegneria solare da almeno vent’anni, ma non è ancora arrivata a una posizione univoca sul contributo che potrebbe fornire all’umanità nella lotta ai cambiamenti climatici. Non è mai stato possibile realizzare esperimenti adeguati a valutarne gli effetti in modo efficace, e questo rende la pratica parecchio controversa. Un nutrito gruppo di scienziati propone di bandire la geoingegneria solare e gli studi al riguardo per evitare che possa essere vagliata come opzione per future politiche climatiche, perché i rischi che pone sono ancora poco conosciuti e non potranno esserlo del tutto se non tra parecchi anni. In secondo luogo, a loro avviso, la speranza che simili tecnologie possano rallentare il riscaldamento globale potrebbe spingere i governi, le imprese e i cittadini a ridurre il loro impegno verso la decarbonizzazione, che è l’unica via d’uscita dalla crisi ritenuta valida dall’intera comunità scientifica. In più, l’attuale sistema di governance globale non è adatto né pronto a sviluppare e attuare gli accordi di vasta portata che servirebbero per mantenere sotto controllo l’impiego della geoingegneria solare. Secondo diversi altri scienziati, però, la ricerca sul tema dovrebbe andare avanti, anche con esperimenti su larga scala, per comprenderne gli effetti e l’efficacia. Per imprenditori come Iseman e Song, «l’incertezza non è una scusa per l’inazione», in barba al principio di precauzione.
Ciò che fa Make Sunsets è legale? La risposta è ancora una volta affermativa. Il Weather Modification Act prevede che chiunque svolga attività atte a modificare il meteo negli Stati Uniti debba riferirle alle autorità competenti dieci giorni prima e dopo averle effettuate, altrimenti rischia fino a diecimila dollari di sanzioni. I fondatori di Make Sunsets rispettano le prescrizioni e affermano di essere in contatto con diverse agenzie governative statunitensi, come CIA e FBI. Altri Paesi sono meno flessibili degli Stati Uniti: il Messico ha deciso di vietare la geoingegneria proprio a causa dei primi esperimenti di Luke Iseman, che nel 2022, prima della nascita della sua startup, ha rilasciato due palloni meteorologici rudimentali nei cieli della Bassa California senza avvisare nessuno.
Il fatto che oggi queste attività possano essere svolte legalmente su suolo americano non implica comunque che i loro effetti rimangano circoscritti al territorio statunitense. È un po’ lo stesso principio legato alle emissioni di gas a effetto serra generate dalla rivoluzione industriale in poi: le conseguenze della crisi climatica si stanno abbattendo su ogni parte del globo, non solo sui Paesi che hanno inquinato di più. La questione andrebbe regolata a livello internazionale. Esistono dei trattati che vietano l’impiego di tecnologie in grado di modificare le condizioni climatiche come strumento di guerra (come le armi biochimiche), ma attualmente, come ricorda l’Ipcc, non esiste nessun organismo in grado di impedire che questo accada nella realtà.
Certo, Make Sunsets agisce su piccola scala e non ha finalità belliche, ma la geoingegneria sta attirando un numero sempre maggiore di investitori nella Silicon Valley. L’attenzione per soluzioni come quella ideata da Iseman e Song, basate sul rilascio di anidride solforosa nella stratosfera, sta crescendo. In un lungo articolo sul tema pubblicato sul New Yorker, l’ambientalista Bill McKibben fa notare che la pratica potrebbe essere portata avanti unilateralmente anche da un singolo Stato con un’aviazione seria. «Forse», scrive, «non servirebbe nemmeno un Paese: a Elon Musk finanziare una missione costerebbe molto meno di quanto ha speso per comprare Twitter, e i razzi li ha già».
Che piaccia o meno, la geoingegneria sta tornando alla ribalta. La prospettiva di adottare soluzioni per rallentare la crisi climatica è allo studio di diversi programmi di ricerca, università e governi. All’inizio di quest’anno la Svizzera ha chiesto alle Nazioni Unite di istituire un gruppo di lavoro per valutare benefici e rischi delle tecnologie di modifica della radiazione solare. La sua proposta si è scontrata con l’opposizione degli Stati africani e degli Stati insulari del Pacifico, tra gli altri, preoccupati per gli effetti negativi che potrebbero avere sull’ambiente. Per fare un altro esempio, nel 2020 i Sami hanno bloccato un esperimento promosso dal programma di ricerca sulla geoingegneria solare dell’Università di Harvard per valutare gli effetti della dispersione di carbonato di calcio nei cieli della Lapponia. Tornando molto più indietro nel tempo, già nel 1965, il rapporto Restoring the Quality of Our Environment, redatto dal Science Advisory Committee del presidente Lyndon B. Johnson, evidenziava la possibilità di compensare le emissioni di CO2 rilasciando in atmosfera piccole particelle gassose in grado di riflettere la luce del sole, esattamente nel modo in cui agisce l’anidride solforosa.
L’idea di oscurare il sole sembra uscita dalle pagine un romanzo distopico o di fantascienza: non a caso, i fondatori di Make Sunsets hanno tratto ispirazione da uno degli ultimi libri di Neal Stephenson, Termination Shock. Persino gli scienziati più aperti alla geoingegneria concordano comunque sulla necessità di considerarla l’ultima opzione sul piatto, per scongiurare il rischio che governi e aziende la considerino come una scappatoia dai loro impegni climatici. Le priorità restano e dovranno rimanere la riduzione delle emissioni e l’adozione di misure di adattamento e mitigazione.
Neanche commento il fatto che una singola eruzione vulcanica rilascia più anidride solforosa di quanta ne potrebbe rilasciare Musk con tutti i suoi razzi 😎🤷🏻♂️ Comunque grazie per l’articolo. Molto interessante