Il giornalismo è un mestiere per ricchi?
Un settore sempre più precario anche negli Stati Uniti è diventato appannaggio di pochi e segnato da grosse diseguaglianze economiche, sociali e perfino etniche.
Era il 2009, quella che era senza dubbio la peggiore crisi economica che il mondo occidentale avesse visto dagli anni Venti del secolo scorso attanagliava gli Stati Uniti, e Barbara Ehrenreich aveva appena convinto il New York Times a farle scrivere una serie di articoli che raccontassero l’effetto della recessione sulle persone che già facevano fatica ad arrivare a fine mese. Non era stato facile: nonostante la crisi, tra il 2007 e il 2012 soltanto l’1% degli articoli pubblicati dalle 52 redazioni più grandi del Paese avevano deciso di pubblicare storie che parlassero apertamente di povertà, mentre gran parte della copertura mediatica si stava concentrando sui problemi di una classe medio-alta che doveva rinunciare ai corsi di pilates.
Ehrenreich voleva fare qualcosa di diverso. Socialista di ferro, tra il 1998 e il 2000 aveva lavorato sotto copertura in una serie di lavori da paga minima – cameriera, aiutante in una casa di cure, cassiera da WalMart – raccontando poi la fatica immensa di essere poveri negli USA nel suo Nickel and Dimed: On (Not) Getting By in America. Ora, sulla scia della crisi, voleva raccontare la classe operaia statunitense, addentrandosi nella pancia del Paese quando faceva più male. Dopo non molto, però, Ehrenreich incontrò un problema: il pagamento del New York Times non bastava nemmeno per coprire le spese del viaggio. “La mia successiva grande realizzazione è stata che le uniche persone che possono permettersi di raccontare la povertà e le difficoltà economiche sono persone che non la stanno vivendo, che hanno risparmi e reti di sicurezza”, commenterà poi dell’accaduto.
Quella della giornalista di successo, proveniente da una cittadina di minatori del Montana ma con un PhD, anni di firme sulle riviste più prestigiose del Paese – dall’Atlantic al Time, passando per Vogue – che si imbatte in un problema finanziario proprio mentre sta coprendo l’ulteriore impoverimento della classe operaia potrebbe sembrare una storia quasi comica. Per tantissimi giornalisti, soprattutto giovani e provenienti da famiglie di recente immigrazione o cresciuti lontani dai centri di potere politico ed economico, la realizzazione a cui è giunta Ehrenreich nel 2009 è una realtà con cui confrontarsi quotidianamente. E che finisce per perpetuare un’industria mediatica in cui a farcela sono solo le persone che possono permetterselo.
Passa le estati, fin da giovanissimo, a cercare tirocini (pagati poco o niente) in città costosissime. Dedica tutto il tempo che puoi ad acquisire competenze tecniche: impara a programmare, a fare video, a utilizzare un pacchetto Adobe che ti porta via ridendo e scherzando centinaia di euro all’anno. Accetta di lavorare molto più di quanto non dica il contratto. E poi, ovviamente, iscriviti a quella scuola di giornalismo, fai quel master, fai tutto il networking che puoi. I consigli che si danno a chi vuole entrare nel brutale mondo dei media, che di anno in anno non fa che cannibalizzare sé stesso, sono nella maggior parte dei casi in buona fede. Ma, soprattutto in un Paese come gli USA, dove la disuguaglianza economica è allucinante e l’istruzione superiore costa più di un occhio della testa, non tengono in conto una scomoda realtà: sono milioni le persone che, semplicemente, non possono permettersi di non essere pagate per mesi, o che non hanno alternativa all’indebitarsi per andare all’università.
A tenere lontane dalle redazioni quelle persone che potrebbero raccontare con un bagaglio di esperienza straordinario quelle storie di marginalizzazione, povertà e disuguaglianza che ancora mancano nel giornalismo americano sono una serie di fattori inestricabili.


C’è l’elitismo dei responsabili delle assunzioni che pescano soltanto da una manciata di scuole prestigiose (e costosissime), evitando come la peste chi ha fatto un dignitosissimo community college e tendendo a riconoscersi in candidati che assomiglino a loro quando erano giovani: colossi come il New York Times e il Washington Post pagano notoriamente bene i propri tirocinanti, ma ammettono anche candidamente di dare la priorità a chi ha una laurea da posti come Columbia o Northwestern.
C’è il sempreverde nepotismo perpetuato dal fatto che la maggior parte delle posizioni all’interno delle testate non vengono pubblicizzate, ma vengono riempite tramite un passaparola che esclude, ovviamente, chi non ha contatti nei posti giusti. C’è il fatto che qualcuno che si è indebitato per andare all’università non sempre può permettersi di scommettere su una carriera volatile e incerta. O che, semplicemente, da qualcuno che deve fare altri due lavoretti per potersi permettere uno stage non pagato non ci si può aspettare la stessa disponibilità a lavorare fuori dagli orari di ufficio, o anche solo la stessa energia. Il tutto all’interno di un sistema in cui l’ambizione è spesso ripagata con lo sfruttamento.


A tutti questi fattori economici si aggiungono questioni specifiche legate ad altre disugugalianze strutturali, relative all’etnia, allo status di immigrazione, all’essere indigeni o meno, al genere. Non è un caso che gli statunitensi non bianchi siano quasi il 40% della popolazione, ma rappresentino meno del 17% dello staff delle testate del Paese. Una recente analisi delle quattordici redazioni appartenenti a Gannet, il più grande editore di giornali degli Stati Uniti in base alla distribuzione giornaliera totale, ha mostrato che tredici di queste testate sono più bianche delle comunità che servono. Nella più diverse di queste redazioni, quella dell’Arizona Republic, il divario retributivo è notevole: i membri appartenenti alle minoranze dello staff guadagnano circa 25 mila dollari di salario medio in meno rispetto ai dipendenti bianchi. Le donne 30mila dollari di salario medio in meno rispetto agli uomini, ma questo è un altro discorso.
«Cerco di aprire le porte il più possibile ad altre donne di colore e ad altri giornalisti di colore», ha affermato Nikole Hannah-Jones, staff writer del New York Times e vincitrice del Pulitzer per il suo The 1619 Project. «Ma ad un giornalista disoccupato che ha fatto sette o dieci interviste e non ha avuto successo non penso di poter dire di non lasciare il settore… Ed è difficile dire alle persone di rimanere in un campo precario, che non le valorizza, in cui è difficile trovare un lavoro a tempo pieno».
«Non dovrebbe essere così, e almeno nel giornalismo le soluzioni sono ovvie», scrive allora Sarah Jones, staff writer di The New Republic cresciuta nella Virginia più rurale. «Pagate un salario di sussistenza. Pubblicizzate apertamente le posizioni lavorative e inviate la lista di posti entry-level alle scuole statali così come a quelle dell’Ivy League. Riconsiderate l’idea di tenere tutto il proprio staff in costose città costiere. Non limitare gli articoli che parlano di questioni di classe all’anno delle elezioni o alle indagini speciali. Queste storie meritano l'attenzione quotidiana, perché ci raccontano le crepe nella facciata dell’America. Rendete più facile l'ingresso dei poveri nel mondo dei media, e racconteremo anche quelle storie per voi. Dopotutto, siamo resilienti, e siamo dei gran giornalisti. Siamo resilienti, dopotutto, e siamo dannatamente bravi giornalisti».
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