I gesuiti negli Stati Uniti: dai primi passi ai sentieri futuri
Jorge Mario Bergoglio è un gesuita. Chi sono i gesuiti e qual è, storicamente, il loro peso nel progredire della religione cattolica negli Stati Uniti?
La Compagnia di Gesù – questo il nome dell’ordine religioso i cui membri si chiamano, appunto, gesuiti – fu istituita da Papa Paolo III (†1549) nel 1540 e dovette la sua esistenza al carisma di Ignazio di Loyola (†1556), nobile basco che aveva abbandonato la vita in armi per intraprendere un percorso di vita al servizio di Dio e del Papa in particolare. La nuova istituzione cattolica, sorta in un periodo particolarmente conflittuale della storia del cristianesimo – quando i seguaci di Lutero (†1546) e Calvino (†1564) stavano trovando sempre maggiore spazio in Europa – si legò infatti al pontefice con uno speciale quarto voto. Unendosi a quelli tradizionali di povertà, castità e obbedienza, tale voto li impegnava a recarsi ovunque il capo della Chiesa di Roma li avesse mandati tra i cristiani scismatici, gli infedeli (come si indicavano i musulmani) o i pagani, compresi quelli dell’appena “scoperto’” Nuovo Mondo.
Gesuiti e Compagnia di Gesù alla “scoperta” dell’America
La prima spedizione oltre Atlantico della Compagnia di Gesù, organizzata su richiesta della corona spagnola nel 1565, ebbe come meta la Florida. L’esito fu tragico, vista la morte violenta del capo dei missionari, Pedro Martínez (†1566), ucciso per mano indigena. Alcuni dei suoi compagni sopravvissero agli scontri e peregrinarono fino a raggiungere le coste dell’attuale Maryland, ma furono presto costretti a fare i conti con le troppo scarse forze a disposizione e a rientrare nel Vecchio Continente. Solo nel secolo successivo altri loro confratelli avrebbero rimesso piede sul suolo di quei territori.
Maggiore successo ebbero i tentativi nella Pimería Alta, regione compresa tra gli attuali Messico settentrionale (Sonora e Sinaloa) e Arizona meridionale. Il primo gesuita attivo nella zona fu Gonzalo de Tapia (†1594), che morì come Martínez colpito dalle frecce degli indigeni di Sinaloa, pronti a reagire violentemente ai tentativi dei gesuiti di sradicare le credenze native. Questo atteggiamento di imposizione forzata del cristianesimo avrebbe caratterizzato anche il futuro delle missioni gesuite nella Pimería Alta, il cui esponente di spicco fu per i gesuiti Eusebio Francesco Chini (†1711). Era un uomo di scienza e un viaggiatore instancabile, capace di fondare ventiquattro missioni e di esplorare la regione così a fondo come nessun europeo prima di lui, riuscendo anche a dimostrare che la California era una penisola e non un’isola, come si era creduto fino ad allora (1702). Nel suo lavoro di missionario, fu molto chiaro nel dividere i nativi buoni (come i Pima, per esempio) da quelli cattivi (gli Apache, sovente rappresentanti come crudeli e spietati anche nell’immaginario western).
Chi era John Carroll
In quel periodo, i gesuiti non godevano certo di una posizione forte all’interno delle colonie britanniche. In realtà, la loro posizione era ovunque talmente discussa e indebolita che si arrivò alla soppressione dell’ordine (1773), per decisione di papa Clemente XIV (†1774), destinata a durare fino alla restaurazione, sancita nel 1814 da Pio VII (†1823). In questo spazio di tempo, i gesuiti erano in qualche modo rimasti attivi in alcune parti del mondo, Stati Uniti compresi. Non che fossero visti proprio di buon’occhio, tanto è vero che leader politici come John Adams (†1826) e Thomas Jefferson (†1826) espressero il loro disappunto quando la Compagnia di Gesù fu ripristinata. Tuttavia, in nome della libertà religiosa garantita dalla Costituzione, il governo permise ai gesuiti di essere presenti e attivi sul suolo americano.
Il loro esponente più dinamico era John Carroll (†1815), un nativo del Maryland che aveva raggiunto le Fiandre nel 1748 per studiare e poi entrare nella Compagnia di Gesù. Dopo la soppressione, aveva deciso di tornare nella terra d’origine, impegnandosi a radunare attorno a sé i vecchi confratelli rimasti lì e in Pennsylvania. Intendeva fondare una comunità e creare un sistema di amministrazione volto a mantenere i diritti sulle proprietà gesuitiche, nell’attesa della restaurazione. Ci riuscì. Guidato dal carisma di Carroll, il gruppo cercò di convincere il Papa della necessità di creare un vescovato americano.
Designato alla carica era, ovviamente, Carroll stesso, la persona giusta per organizzare una Chiesa fedele a Roma da un lato e pronta ad accogliere le esigenze americane dall’altro. Nel 1790 il progetto trovò compimento: Carroll fu nominato quale primo vescovo cattolico sul suolo degli Stati Uniti, nella sede di Baltimora. Perseguendo con metodo lo scopo di propagare il cattolicesimo nella Repubblica, Carroll lavorò per la creazione di un’accademia che provvedesse all’educazione dei giovani cristiani e del futuro clero. Non senza difficoltà, il vescovo raggiunse il traguardo. Il luogo scelto per l’accademia (composta da una scuola e da un seminario assieme) fu il piccolo porto di Georgetown, sul fiume Potomac. Il progetto prese vita tra il 1789 e il 1791 e Georgetown iscrisse il proprio primo studente nel 1790. Seguendo fedelmente lo stile gesuita, Carroll aprì la scuola anche ai protestanti: era convinto che l’isolamento non costituisse una scelta vincente e che la convivenza tra giovani cattolici e protestanti fosse più che opportuna. Negli anni successivi, il piccolo contingente cattolico stabilitosi sulla costa nord-orientale si consolidò e quando si diffuse la notizia che Pio VII aveva ripristinato la Compagnia di Gesù, a Carroll rimaneva solo un anno di vita, passato a quanto dicono le fonti con la serena soddisfazione di avere conseguito i principali obiettivi della propria esistenza.
Verso ovest
La stagione più fortunata per i gesuiti negli Stati Uniti era pronta ad arrivare, legata strettamente allo sviluppo delle vicende politiche europee. La crescita della Compagnia di Gesù nei decenni immediatamente successivi alla Restaurazione e la sua prevalente adesione alle forze conservatrici suscitarono infatti l’ostilità di vari governi del Vecchio Continente.
Nel corso del XIX secolo, i gesuiti sarebbero stati espulsi da tutti i Paesi cattolici europei, tranne il Belgio. Molti dei religiosi esiliati trovarono rifugio negli Stati Uniti, uno scenario missionario per l’epoca pieno di promesse. Proprio dal Belgio proveniva Pierre-Jean De Smet (†1873), grande protagonista dell’evangelizzazione dell’Ovest americano. Nato nelle Fiandre, arrivò negli Stati Uniti all’età di vent’anni. La sua vita tra le due sponde dell’Atlantico fu quella di un viaggiatore: percorse innumerevoli miglia per terra e per mare, instancabile evangelizzatore dei territori del Midwest, ma capace di spingersi a più riprese oltre le Montagne Rocciose, promotore della causa gesuita in Europa, dove tornò più volte per ottenere risorse, umane ed economiche, a beneficio della missione americana.
De Smet suscitò molto interesse e ispirò numerose vocazioni raccontando i propri viaggi e gli incontri con i nativi in libri, lettere e sermoni. Il successo editoriale delle sue opere fu davvero notevole e ancora oggi la loro lettura risulta niente affatto noiosa, mentre le mappe disegnate dal gesuita belga rappresentano una testimonianza di grande rilievo.
Gesuiti e schiavismo
Quando, dopo la restaurazione del 1814, la Compagnia di Gesù riprese l’impegno dell’evangelizzazione e dell’insegnamento nelle Americhe, il mondo era cambiato. Le posizioni antischiaviste erano diffuse e gli stessi gesuiti le sostenevano in genere, con una sola grande eccezione: gli Stati Uniti d’America. Il lavoro e il commercio degli schiavi ebbero infatti una grande importanza per il raggiungimento della stabilità economica dell’insediamento gesuitico nel Maryland e per lo sviluppo della Georgetown University in particolare.
Già negli anni tra la soppressione e la restaurazione (1773-1814, ricordiamolo), i gesuiti (o ex gesuiti) impiegavano manodopera schiava nelle loro piantagioni di tabacco nel Maryland. Il dibattito sulla legittimità della schiavitù, inevitabilmente, li coinvolse. Essi decisero, nel 1838, di vendere i propri (ufficialmente, ma con ogni probabilità erano di più) 272 schiavi a due proprietari terrieri della Louisiana. Uomini, donne e bambini furono ceduti in cambio di 115.000 dollari, corrispondenti oggi a più di tre milioni di dollari. Il ricavato servì a salvare il college, allora in crisi e oggi stabilmente posizionato tra le prime trenta nel ranking delle università statunitensi. Questo guadagno fu decisivo per prima sostenere e poi stabilizzare Georgetown, senza che la vendita ponesse fine alla storia dei gesuiti come proprietari di schiavi. Essi sfruttarono per qualche decennio ancora il lavoro forzato in Missouri, Kentucky e Louisiana fino agli anni della Guerra Civile (1861-65).
In un virtuoso esempio di uso pubblico della storia (che non necessariamente deve essere strumentale in negativo), i gesuiti americani hanno scelto la strada di una meditata presa di coscienza, disponibile a riconoscere le proprie colpe per provare a porvi in qualche modo rimedio. Proprio dall’università di Georgetown è partito un progetto di collaborazione continuativa con la GU272 Descendants Association, così chiamata in memoria dei 272 schiavi venduti nel 1838.
Il punto di partenza è la ricerca volta a identificarne e rintracciarne i discendenti. In seguito, si è stabilito che il denaro raccolto e da raccogliere finanzierà borse di studio e aiuti all’istruzione, sosterrà programmi culturali collaborativi volti allo smantellamento dell’eredità schiavista e alla promozione della racial justice, aiuterà i discendenti meno abbienti nelle spese sanitarie e di necessità, senza escludere destinazioni diverse. Altre università hanno seguito Georgetown e il progetto va avanti, non senza difficoltà, ma volto alla costruzione di un futuro più consapevole e, si spera, più giusto.
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