Geografia dell’odio: la violenza transfobica fra Georgia e Texas
Tra legislazioni discriminatorie e retoriche d’odio, Texas e Florida come epicentri della violenza transfobica negli Stati Uniti

Il marzo appena concluso è stato un periodo complesso per la neonata carriera politica di Elon Musk. Durante una tesa riunione di gabinetto tenutasi a metà mese, il responsabile del DOGE – già consigliere anziano di Donald Trump – è stato apertamente criticato da colleghi di governo come Marco Rubio e Sean Duffy, indisposti dal suo atteggiamento, tanto da rendere necessario l'intervento del Presidente nelle inedite vesti di paciere. Un’indisposizione che appare confermata dalla popolarità di Musk, la quale ha subito un ulteriore calo, come dimostrato dalle elezioni per la Corte Suprema del Wisconsin, interpretate da molti come un referendum implicito sul suo operato.
Durante lo stesso mese, la figlia di Musk, Vivian Jenna Wilson, ha rilasciato un’intervista a Teen Vogue in cui ha espresso dure critiche nei confronti del padre, tanto sul piano personale quanto su quello politico. Wilson – che, vale la pena ricordare è una donna transgender – ha denunciato atteggiamenti violenti e transfobici non solo nella sfera privata, ma anche in quella pubblica. La condotta di Musk, infatti, è in linea con le teorie misogine e reazionarie della cosiddetta manosphere: un insieme di ambienti tossici, dichiaratamente incel, vicini al suprematismo bianco e all’alt-right, espressione di un conservatorismo che odia e mina le libertà dei soggetti identificati come diversi. Categoria in cui, evidentemente, rientra la comunità trans.
Sebbene sia impossibile quantificare la relativa influenza di Musk, il clima di odio nei confronti della comunità trans negli Stati Uniti contemporanei è confermato dai dati. Prendendo in analisi il periodo fra il 2017 e il 2021, il numero di persone transgender assassinate annualmente negli Stati Uniti è quasi raddoppiato, passando da 29 a 56: un incremento del 93 per cento, secondo quanto riportato dall’organizzazione no-profit Everytown for Gun Safety. Inoltre, nonostante solo il 13 per cento della comunità trans sia afroamericano, tre quarti delle vittime erano persone nere.
È possibile rilevare una correlazione fra il colore politico degli Stati federali e i casi di violenza nei confronti della comunità trans. In maniera non sorprendente, gli Stati repubblicani sono quelli con il maggior numero di episodi relativi: su tutti, la Florida e il Texas.
Durante la prima presidenza Trump, il Texas si è tristemente imposto come lo Stato con il maggior numero di omicidi di persone transgender: 14 vittime accertate tra il 2017 e il 2020, pari a quasi il 10 per cento del totale nazionale, secondo il Transgender Law Center. Un dato allarmante, ulteriormente aggravato dalla tipologia delle vittime: in prevalenza donne trans nere o latine, giovani, spesso senza fissa dimora e senza accesso a reti di protezione. La frequenza di crimini d’odio nel Lone Star State è coerente con questo contesto: secondo i dati del Dipartimento di Giustizia statunitense, il Texas ha registrato almeno 61 crimini d’odio anti-LGBTQ+ nel solo 2021.
Uno scenario analogo si osserva in Florida, altro epicentro della violenza transfobica nel sud degli Stati Uniti. Nel 2018, lo stato ha fatto segnare il numero più alto di omicidi di persone transgender a livello nazionale, con almeno cinque donne nere uccise, secondo Equality Florida. Sebbene la Florida non diffonda regolarmente dati disaggregati per identità di genere, secondo Human Rights Campaign, tra il 2013 e il 2023 lo stato ha rappresentato circa il 9 per cento del totale nazionale di omicidi di persone trans.
Vale la pena sottolineare come la violenza non si consumi solo tramite aggressioni o reati, anzi. Nei casi di Texas e Florida si fa spazio e prende forma nei codici legislativi, nelle aule dei parlamenti locali, nei testi di legge pensati per limitare la libertà e la visibilità delle identità trans. È in questo contesto che, nel marzo 2025, il Texas ha visto l’introduzione della House Bill 3817, proposta dal deputato repubblicano Tom Oliverson: un disegno di legge, detto Gender Identity Fraud Bill, che punta a trasformare in reato il fatto che una persona transgender non dichiari il proprio sesso assegnato alla nascita in “ambiti rilevanti”. La vaghezza della formulazione apre a scenari ambigui: chi decide cosa è rilevante? E per chi?
La proposta non è un’eccezione, ma l’ennesimo tassello di un disegno politico chiaro. Nella primavera del 2024, con la Senate Bill 14, il Texas aveva già vietato l’accesso dei minori a cure di affermazione di genere; due anni prima, nel 2022, Greg Abbott, governatore dello Stato, aveva chiesto che le famiglie che supportano la transizione dei figli fossero indagate per presunto abuso su minori. Una serie di misure che non solo escludono, ma delegittimano strutturalmente l’identità trans, trasformandola in devianza sociale e anomalia da monitorare.
Analogamente, in Florida, l’House Bill 1521 ha stabilito che l’accesso ai bagni pubblici deve avvenire solo in base al sesso assegnato alla nascita, pena sanzioni civili e penali. Una norma che fa eco alla legge HB 1557, del marzo 2022, nota al pubblico come Don’t Say Gay, che ha escluso dai programmi scolastici pubblici ogni discussione su orientamento sessuale e identità di genere. Il testo prevede, tra le altre cose, che il personale scolastico informi obbligatoriamente i genitori qualora uno studente si identifichi come transgender, anche contro la volontà del minore. In Texas, una misura equivalente è arrivata nel maggio 2023, sotto forma della Senate Bill 15, che vieta l’accesso di studenti trans alle squadre sportive secondo il genere di elezione. Entrambe le leggi sono state presentate come “atti di protezione”, riprendendo quel vezzo comunicativo del conservatorismo occidentale odierno che maschera il proprio attacco alle libertà delle minoranze con proclami di difesa e tutela, quando nei fatti crea ambienti ancora più ostili per le stesse – nel caso specifico gli adolescenti appartenenti alla comunità LGBTQ+.
È evidente come la questione non abbia un carattere meramente normativo. È culturale e riguarda l’accesso alla parola, alla possibilità di riconoscersi dentro un discorso pubblico che non preveda vergogna o rischio. Nelle scuole di questi Stati, l’identità transgender è rimossa non perché marginale, ma perché dichiararla è diventato un atto potenzialmente pericoloso. In questa geografia della marginalizzazione, è impossibile non riconoscere la firma dei due principali protagonisti politici: Greg Abbott in Texas e Ron DeSantis in Florida. I loro nomi non ricorrono solo nei testi legislativi, ma nei comunicati stampa, nei palchi delle convention, nelle linee guida per le amministrazioni locali. In entrambi i casi, la questione trans è diventata un dispositivo ideologico, prima ancora che normativo. Non un’emergenza da affrontare, ma un argomento da cavalcare: con toni allarmistici, lessico da ordine pubblico, e un linguaggio studiato per creare distanza e paura.
I loro governi locali sono responsabili di un impianto normativo che, nell’insieme, trasforma la transizione in una pratica sospetta, da monitorare, sorvegliare, ed eventualmente punire.
Ancor più della singola legge, ciò che conta è l’ossessione retorica: nei discorsi ufficiali, nelle interviste, nelle dichiarazioni a reti unificate. DeSantis in particolare ha più volte descritto l’identità transgender come ideologia, minaccia, imposizione culturale. Non è più una questione di diritti civili: è una battaglia per “la famiglia”, “la verità”, “l’infanzia”, categorie impiegate come cortine ideologiche per giustificare un’esclusione legalizzata.
In entrambi i casi, il punto non è l’identità trans in sé, ma il suo valore simbolico all’interno di un conflitto culturale più ampio. Essere trans in questi contesti significa incarnare un’alterità utile a consolidare un blocco politico, rafforzare l’immaginario della minaccia e offrire al potere una leva efficace su cui insistere. Quando i diritti diventano bersaglio, la democrazia cede il passo alla costruzione di un nemico e, in questi due Stati, quel nemico ha un nome, un volto, un’identità precisa: la persona altra, colpevole di esistere in pubblico.
Nel tentativo di escludere le persone transgender dallo spazio pubblico e legittimo, si finisce per ridisegnare anche le regole dell’appartenenza stessa. Il bersaglio ufficiale è l’identità trans, certo, ma nel mirino finisce chiunque non corrisponda ai codici dominanti di genere, bellezza, razza, normatività. Una donna troppo mascolina, troppo povera, troppo nera, troppo libera, può facilmente diventare sospetta. Come se l’identità fosse una concessione da meritare, anziché un diritto da garantire.
Così, nel nome della difesa della verità biologica, si produce una verità politica sempre più binaria e sempre più pericolosa. Una verità che stabilisce chi è abbastanza donna o uomo per accedere a un bagno, a uno spogliatoio, a una competizione sportiva. E chi non lo è, per come appare, per come si veste, viene rimossa, respinta, silenziata.