L’11 settembre 2001 mia madre stava tornando a casa in macchina. Aveva appena fatto visita a un’amica che abitava in un’altra regione e stava percorrendo l’autostrada che l’avrebbe riportata alle sue due figlie. Mio padre le teneva compagnia sul sedile del passeggero, mentre la radio trasmetteva canzoni popolari. Poi, all’improvviso, la musica si interruppe e una voce roca annunciò un’edizione straordinaria del telegiornale: del fumo si alzava da uno degli edifici del World Trade Center a New York, negli Stati Uniti. Un aereo si era presumibilmente schiantato contro la torre, ma era difficile determinare cosa fosse accaduto esattamente. Più tardi, la voce squillante tornò a parlare, questa volta in un tono allarmato. Un altro aereo aveva colpito il secondo edificio; le fiamme divoravano le Torri Gemelle, tutti urlavano e corpi volavano fuori dalle finestre.
«Rimasi a bocca aperta e guardai tuo padre», ha raccontato mia madre. «Pensai a te e a tua sorella a casa. Ero terrorizzata. Chiamai subito». Il telegiornale aggiunse che non si trattava di un incidente: erano stati i terroristi. «Mi dissi che, se la terza guerra mondiale fosse mai iniziata, sarebbe stato quel giorno».
Ho chiesto a mia sorella, che si prendeva cura di me, se ricordasse cosa stessi facendo l’11 settembre 2001. «Quello che fanno i bambini di sei mesi!», sospirò. «Stavi dormendo nella culla».
E così mi sono ritrovata a far parte di una generazione a sé stante, qualcosa di diverso dalla Generazione Z, pur appartenendovi: la generazione del 2001.
«Di che anno sei? »
«2001»
«Ah sì, l’anno delle Torri».

Quando il mondo cambiò l’11 settembre, io dormivo. Ero troppo piccola per comprendere gli eventi di quel giorno, ma nei successivi anni il fatto di essere venuta al mondo in quel momento storico mi è stato ricordato più volte, soprattutto nelle conversazioni degli adulti intorno a me. Ricordo in particolare il 2011, il decimo anniversario dell’attentato. La memoria era ancora vivida, e io abbastanza grande da rispondere alla domanda: «Di che anno sei?» e cogliere, almeno in parte, il peso della reazione che ne seguiva: «L’anno delle Torri».
Per molto tempo ho vissuto l’anno della mia nascita come un fardello. Essere arrivata nel mezzo di una contingenza storica che ha segnato il corso delle relazioni internazionali mi sembrava un’eredità ingombrante, un filo rosso che mi legava a un evento che non avevo vissuto, ma che sentivo su di me. Presto ho avvertito la responsabilità di colmare il vuoto di consapevolezza di quella bimba nella sua culla, di dare un senso a quell’anno che mi portavo addosso. Cosicché, alla fatidica domanda sul mio anno di nascita, non avrei più risposto con un semplice numero. Era ciò che ci si aspettava da me, credevo. Dopo tutto, avevo avuto la faccia tosta di venire al mondo proprio allora.
La mia curiosità sull’America, sulle Torri e su quell’uomo con la barba lunga e il turbante che aveva organizzato tutto veniva alimentata dalla visione degli uomini in divisa. C’è un’importante base militare statunitense nella mia città, e la comunità americana che ci vive è molto grande. Si tratta di military families, famiglie che si sono trasferite dagli Stati Uniti per seguire padri e madri che servono nell’esercito e sono stati mandati proprio lì, nella mia città, per periodi di tempo più o meno lunghi.
Attratta dal fascino della divisa e infervorata dal fiorire dell’adolescenza, mi era impossibile non soffermarmi a guardare quegli uomini alti e ben piantati, dalla divisa verde, i capelli rasati e il sorriso ammaliante, mentre uscivano dalle loro case per andare al lavoro. Allo stesso modo, mi era impossibile non sorridere come una sciocca a quei ragazzi che si allenavano insieme nella corsa per le strade della città la mattina presto, proprio mentre io mi avviavo al liceo, con quei polpacci muscolosi, i pantaloncini corti e la maglietta grigia con su scritto ARMY, “esercito”. Un giorno d’estate, uno di quei ragazzi mi avrebbe promesso un bacio sotto i fuochi d’artificio del 4 luglio, per poi scomparire in quella calura estiva come un miraggio. È stato meglio così.
Osservare i soldati uscire di casa, allenarsi, o semplicemente passeggiare con le famiglie evocava in me anche il fascino del sogno americano.
Eccoli, loro, gli americani, nati sotto la buona stella di un Paese forte, alla guida della politica e dell’economia mondiali. Eccolo lì, il sogno di cui tutti mi dicevano.
Eccola, l’America tanto desiderata, dove i sogni si realizzano, i soldi crescono sugli alberi, la libertà regna sovrana e la vita è bella.
Osservavo queste persone e mi dicevo che loro vivevano proprio quel sogno; anzi, scorreva loro nel sangue perché quel sogno li aveva generati, cresciuti e portati lì, nelle strade della mia città, a monito che tutto ciò che io potessi desiderare fosse decorato a stelle e strisce.
Nel frattempo, negli anni del liceo, ho proseguito le mie ricerche sull’11 settembre e con il tempo la conoscenza superficiale dei giornali, dei documentari e delle trasmissioni televisive non mi bastava più. Avevo capito che il terrorismo – ora avevo cominciato a chiamarlo con il suo nome – era un fenomeno esteso che andava al di là delle Torri e di Bin Laden – l’uomo con la barba lunga; un fenomeno così complesso e, allo stesso tempo, così affascinante. Dovevo sapere di più, dovevo scavare a fondo. Chi sono i terroristi? Che cosa cercano di ottenere? Perché attaccano l’Occidente? E perché proprio l’America?
Così, quando è giunto il momento di scegliere un percorso universitario, ne ho preso uno che mi consentisse di affrontare questi temi in modo accademico. Alla fine di tre anni di duro lavoro ho scritto una tesi sull’intervento statunitense in Afghanistan, ispirata dal famigerato ritiro dal paese nel 2021 e illuminata da una nuova visione critica degli Stati Uniti. Sì, nella mia mente conservavo ancora l’immagine dorata di quella promessa di vita che scorgevo nei giovani soldati della mia città. Tuttavia, quella luce aveva perso parte del suo splendore, e i contorni di quell’immagine si erano definiti con maggiore chiarezza. Ora riconoscevo la complessità dell’America e ne intravedevo le ombre. All’epoca, però, non mi spaventavano così tanto.
Sono passati due anni. Ora mi trovo nelle fasi iniziali della stesura di una nuova tesi. Ancora una volta scrivo di terrorismo, di Afghanistan, di America, ma questa volta con uno sguardo diverso, attraverso una lente nuova.
Questa tesi nasce dopo quattro mesi immersa in un sogno: una residenza a New York, dove ho studiato in un college prestigioso e lavorato per un’azienda altrettanto rinomata. Per tanto tempo, New York è stata la città dei miei desideri. Durante quei quattro mesi, ho contemplato il suo profilo illuminato dalla finestra innumerevoli volte. È stato il mio sogno. L’ho vissuto fino in fondo, con tutta me stessa. Ma è stato anche un incubo.
Il 5 novembre scorso ero lì, con gli occhi incollati allo schermo della televisione, le guance rigate dalle lacrime, circondata dal silenzio di chi, come me, guardava a bocca aperta, incredulo. Il giorno seguente, New York era più silenziosa che mai.
L’immagine onirica dell’America che avevo costruito dentro di me è ormai sbiadita, si sgretola giorno dopo giorno, tra un ordine esecutivo e l’altro. Mi chiedo se sia mai esistita davvero o se, come il fardello di essere nata nel 2001, sia stata un’illusione, il prodotto di un’euforia collettiva, uno slancio di speranza rivolto a una roccaforte sulla collina, di cui ora non restano che rovine.
Ma allora, perché continuo a scrivere di America?
Scrivo per coloro che vengono deportati con le mani incatenate, spogliati della propria dignità umana. Scrivo per le mie sorelle costrette a guardare crescere il loro grembo con un frutto che non hanno voluto, né chiesto. Scrivo per chi non può amare liberamente. Per chi cade vittima della violenza armata, perché nato con il colore “sbagliato” della pelle o perché quel giorno si trovava tra i banchi di scuola.
C’è ancora un’America che resiste tra le macerie, che lotta per sopravvivere. E la sua storia merita di essere raccontata.