Gay and dangerous
Le carte del Dipartimento di Stato aiutano a comprendere la razionalizzazione “imperiale” della sistematica omofobia di stato degli anni ‘50

Come già scritto proprio su Jefferson, la Lavender Scare è uno dei più infami casi di ingiustizia della Guerra Fredda. Senza alcuna prova migliaia di persone impiegate nel governo federale furono oggetto di una campagna di persecuzione e discriminazione puramente per il loro orientamento sessuale.
Chi ha familiarità con la storia della Guerra Fredda conosce il legame tra scare con quella Red. Esattamente come il comunismo, l’omosessualità era vista come una minaccia alla sicurezza nazionale. La logica apparente dietro un simile ragionamento era circolare: l’omofobia della società rendeva le persone omosessuali vulnerabili e vittime potenziali di ricatto; tuttavia, erano esattamente la cultura e le politiche omofobe che le mettevano ancora di più in pericolo. Era così pregnante l’associazione tra queerness e slealtà che la distinzione tra i due concetti divenne sempre più confusa.
All’apparenza temi completamente slegati, fu durante una sessione del Congresso riguardo gli aiuti esteri che si aprì uno dei capitoli più volgari della Lavender Scare.
Era il marzo del 1950 e la Camera discuteva riguardo la possibilità di invio di aiuti finanziari a nazioni africane che avevano recentemente ottenuto l’indipendenza dagli imperi europei in declino. Durante il dibattito, dopo un discorso di James Sutton in cui auspicava di spendere invece i soldi per make America great nel suo confronto con l’URSS, Arthur Miller chiese di inserire un emendamento che bandisse gli omosessuali dal governo federale. Miller usò metafore anatomiche, diagnosticando alla società americana la presenza di una “fetida puzzolente massa omosessuale (…), attorno allo scheletro, una minaccia al benessere della società”. Miller continuò dicendo che “a volte mi domando quanti omosessuali stanno minacciando e rendendo vulnerabile la politica estesa di questo paese”. La diagnosi si fa quindi geopolitica, “è un fatto noto che l’omosessualità ha caratteristiche orientali, ancora prima del tempo di Confucio; I russi infatti credono molto nell’omosessualità”.
Dal discorso emerge quindi un’altra più potente linea di pensiero, ulteriore rispetto a quella di cui si parlava prima, e che combacia con ciò che è possibile carpire da numerose le carte dei National Archives. La persona omosessuale era un pericolo per lo Stato non solo perché potenziale vittima di ricatto, ma perché attivamente impegnata in un’azione di sabotaggio della nazione, a causa dell’intersezione tra perversione sessuale e un-Americanism. Il Dipartimento di Stato stava trovando conferme di ciò in varie pubblicazioni dell’epoca riguardo una cospirazione transnazionale che mirava a minare il tessuto sociale e il carattere del Paese proprio all’alba della sua egemonia globale.
Il discorso di Miller arrivò dopo che il Dipartimento di Stato aveva annunciato di aver espulso 91 omosessuali dai suoi ranghi, in seguito alle accuse infamanti del Senatore McCarthy all’inizio di quell’anno che diede il via alle scares degli anni ’50. L’editorialista del Los Angeles Times Frank R. Kent scrisse che anche se prove di tradimento non ce ne fossero, McCarthy aveva sicuramente il pubblico dalla sua. Uno studio della massa di lettere che riceveva fa emergere come il 75% di esse riguardasse accuse di depravazione sessuale nei ranghi del governo federale. Solo il 20% invece riguardava simpatie comuniste. Quindi l’annuncio del Dipartimento di Stato servì soprattutto a placare un’ondata di panico morale, con l’effetto però che l’allontanamento di centinaia di persone confermasse il sospetto che ci fosse qualcosa che non andava in loro, che fossero parte di una internazionale omosessuale, una “Homintern”.
In un articolo del 1952, la scrittrice R.G. Waldeck, infatti, affermava che la vulnerabilità al ricatto era una delle ragioni minori per la necessità di allontanare gli omosessuali e le persone queer in generale dal governo. “Sono parte di un’internazionale sinistra, misteriosa e efficiente”. Secondo lei “uniti dalla loro identità e desiderio, dalle loro indicibili abitudini e necessità, per non parlare del loro scandaloso vocabolario, i membri di questa Internazionale costituiscono una cospirazione globale contro la società occidentale”; ed ecco tornare l’aspetto straniero, orientale, della queerness. “Ecco perché l’impiegato omosessuale è un pericolo, in questo confronto tra est e ovest: i membri di una cospirazione sono proni a partecipare ad altre. Questa è la ragione per cui gli omosessuali diventano nemici del capitalismo, essendo necessariamente marxisti servono il comunismo mettendo in crisi gli standard, la morale e le norme del mondo borghese”. Questo articolo non è semplicemente un pezzo affascinante di omofobia paranoica che prende in prestito termini e immaginario dell’antisemitismo. Una copia si trova in un faldone molto sottile ai National Archives di Washington D.C., tra le carte di Samuel D. Boykin, Direttore del Bureau of Security and Consular Affair del Dipartimento di Stato. Il dossier è quello che il Dipartimento mise insieme al fine di dimostrare la necessità dei licenziamenti in mancanza di prove di tradimento (che non emersero in alcuna occasione). Il memorandum che chiude il dossier ci rivela la logica inquietante alla base della Lavender Scare.
Il primo paragrafo storicizza l’omosessualità. Il “problema esiste da sempre (…); da tempo immemore tutte le razze umane hanno dovuto occuparsi della questione. Alcune l’hanno tollerata, altre condannata”. Poi si lancia in un’associazione curiosa tra essa e il concetto di declino di civiltà. “Studi hanno messo in relazione una maggiore tolleranza dell’omosessualità con la decadenza degli imperi egizio, greco e romano. In queste civiltà il vigore e il carattere virile della società sono stati demasconilizzati”. L’emarginazione dell’impiegato federale omosessuale non riguardava quella vulnerabilità al ricatto che veniva usata come ragione ufficiale. Era una necessità di civiltà, legata a come gli Americani cominciavano a vedere sé stessi e il loro ruolo nel mondo in quel momento storico, qualcosa che però non riguarda soltanto il contesto geopolitico della rivalità USA-URSS.
Una certa visione si era fatta strada dagli anni ’20 all’interno dei corridoi del Dipartimento di Stato, una di civiltà che vive di stadi. Internazionalisti come Dean Acheson o Henri Mongenthau parlavano apertamente degli Stati Uniti come portatori della torcia della civiltà occidentale, in un contesto di auto-distruzione e provincializzazione europea. Tuttavia, pensavano che il popolo statunitense non fosse all’altezza di questa missione. Lo spettro del declino aleggiava su una società con troppi elementi sovversivi e disturbanti. Pensavano che il futuro della nazione dipendesse dall’isolare e proteggere ciò che fortificava (cioè virilizzava) il carattere della nazione, di fronte alle sfide globali che la attendevano.
Il memorandum termina proprio con questo punto. “Crediamo che gli omosessuali siano deboli, instabili, persone senza morale. (…) Non abbiamo prove di slealtà (…) tuttavia il loro carattere e gli studi presenti nel dossier ci portano a concludere che l’omosessuale non è adatto ad un impiego nel governo federale”.
Questo dossier permette di fare considerazioni più generali sulla storia americana. Intrinseco alle nozioni illuministe di civiltà e del suo declino era il colonialismo. La sessualità, in questo impianto ideale, quindi diveniva uno dei modi elementali di costituzione di gerarchie di potere, razionalizzate all’interno di un contesto imperiale. Il mondo si divideva in civilizzati/non civilizzati, degni/indegni. Nel ‘900 questi ragionamenti si erano arricchiti di razzismo e psicologia freudiana, trattati come pura e oggettiva scienza. Non sorprende quindi che Miller abbia pensato che il momento migliore per denunciare il pericolo omosessuale fosse durante una seduta riguardo gli aiuti esteri. Le relazioni globali degli Stati Uniti venivano lette anche in termini di morale sessuale. Chi fa studi post-coloniali o chi fa ricerca sul colonialismo europeo potrebbe dire che non c’è alcuna novità qui. Tuttavia, molti di quelli che studiano la storia americana fanno ancora fatica ad applicare queste categorie coloniali agli Stati Uniti. Forse perché i protagonisti stessi della loro storia furono riluttanti a riconoscere che quello americano fosse davvero un impero. Anche se questo è vero, ciò nondimeno le categorie che il Dipartimento di Stato usava, a prescindere dal contingente geopolitico, erano di natura imperiale e coloniale. Solo in questo contesto si può spiegare l’esistenza di asserzioni, dossier e politiche del genere durante la Guerra Fredda.
In una delle registrazioni nello Studio Ovale emerse durante il Watergate, del 13 maggio 1971, Richard Nixon, commentava la sitcom All in the Family (in Italia andata in onda come Arcibaldo). Riferendosi alla presunta bisessualità di uno dei personaggi, il Presidente era adirato per il livello di tolleranza dell’omosessualità in America. “Lo sapete cosa accadde ai Greci. L’omosessualità li ha distrutti. Aristotele era omosessuale, esattamente come Socrate”. Si sente John Ehrlichman (assistente per la politica interna, e uno degli organizzatori materiali dell’effrazione che scatenò lo scandalo Watergate) rispondere che “beh Socrate non aveva l’influenza che ha oggi la TV”. Nixon continua. “Sai cosa accadde ai Romani? Gli ultimi sei imperatori erano tutti froci”.
Non è un caso che il Presidente usi questi riferimenti storici nella sua sfuriata. Era membro del congresso ai tempi dell’emendamento di Miller e del dossier del Dipartimento di Stato. Quell’ideologia che vedeva nella perversione sessuale la ragione del declino imperiale delle civiltà permeava le gerarchie politiche americane prima di allora e per molto tempo dopo. Venti anni dopo l’inizio della persecuzione sistematica degli omosessuali, il Presidente degli Stati Uniti ancora blaterava di imperatori omosessuali e di pericolo queer per la sicurezza nazionale.