America contro America. “Let's Go Brandon!” e l'ineluttabile presenza della politica nello sport
Il caso del pilota NASCAR diventato, suo malgrado, simbolo della resistenza alla presidenza di Joe Biden ci racconta un'America ipocrita e irrimediabilmente divisa.
Lo sport è politica. Chiunque voglia tenere quest’ultima fuori dalle competizioni atletiche professionistiche, deve avere dei buoni motivi per riuscire a silenziare qualsiasi orientamento ideologico prevalente all’interno di un circolo degli addetti ai lavori.
Negli USA questa forma mentis è presente in tutte le leghe sportive. In NBA, il campionato di basket più seguito del mondo, il posizionamento intellettuale dei giocatori ha raggiunto un livello superiore nel 2020, quando le proteste contro la discriminazione razziale e contro la violenza della polizia sono arrivate sulle sponde di Orlando, dove si stava cercando di riorganizzare la stagione 2019-20 nella cosiddetta Bubble, in fuga dai contagi.
Lì, i cestisti statunitensi (ma anche europei) hanno sfoggiato casacche con frasi sulla giustizia sociale sul retro al posto dei cognomi. Non è sempre andato tutto secondo programma, infatti il giovane afroamericano dei Magic, Jonathan Isaac, si è rifiutato sia di indossare maglie personalizzate, sia di inginocchiarsi durante l’inno, rispedendo al mittente gli attacchi di chi giustamente aveva declinato politicamente le sue azioni.
L’illusione dell’isola felice e il pericolo delle bolle
L’NBA non è un’isola felice. Oltre ad alcuni giocatori ci sono soprattutto le proprietà, che intervengono indirettamente sul dibattito politico nazionale. Come? Finanziando le cause politiche a cui si sentono più vicini, il più delle volte donando ingenti somme di denaro a candidati di destra (l’81% delle donazioni provenienti dai proprietari NBA vanno al Partito Repubblicano) che in parecchie occasioni hanno criticato i campioni NBA per i loro atteggiamenti progressisti, con la seguente frase: Shut Up and Dribble!
Non esiste un’uniformità ideologica. Nemmeno nei contesti che all’esterno potrebbero apparire come delle bolle di pensiero. La NASCAR è sinonimo di conservatorismo. I motori sono uno sport per bianchi e da bianchi. Questo è il preconcetto predominante. I fan della NASCAR sono tutti bianchi, Rednecks, WASP o, per rincarare la dose, Hillbilly. Tutti termini inutilmente offensivi e dispregiativi. Alla fine, sono solo persone di estrazione medio-bassa che si divertono sugli spalti di un circuito automobilistico a guardare macchinoni da corsa sfrecciare a 320 km all’ora. Ma non è sempre così.
Nel 2020, il pilota Darrell “Bubba” Wallace, unico afroamericano a gareggiare in tutte le categorie e sottocategorie NASCAR, trovò una corda con un cappio nel suo garage durante i preparativi della Talladega Superspeedway. Un fatto inquietante, visto il portato storico e simbolico che possiede nel Sud degli Stati Uniti, dove i linciaggi di afroamericani in passato erano all’ordine del giorno.
Alla fine dell’indagine interna, la NASCAR scoprì che quella corda non era stata posizionata come avvertimento ma, anzi, si trovava dentro a quel garage dal 2019 e perciò Bubba Wallace non era stato vittima di nessun crimine d’odio. Wallace si è sentito sollevato da questa notizia, ma la quantità di insulti e accuse ricevuta in risposta a quanto evidenziato dall’investigazione è servita a scaricare la rabbia e il razzismo repressi da moltissimi fan della NASCAR.
Qualcosa, tuttavia, è cambiato. E mentre HBO aggiungeva un disclaimer sul razzismo in Via col vento, la NASCAR prendeva una decisione coraggiosa, introducendo il divieto di esporre bandiere confederate durante le corse. Perché è una scelta coraggiosa? Perché per chi lo ha sempre fatto impunemente è una forma di tradimento. Gli unici nostri alleati rimasti hanno venduto l’anima al progressismo, avranno detto nella loro testa i sostenitori più accaniti. Ma non è detta l’ultima parola.
La nascita di un mito (o di un meme)
Nel 2021, sempre a Talladega, un mito (o un meme) è nato. Non sportivo, ma politico, sociale. Brandon Brown non ha mai vinto una gara in carriera. Quel 2 ottobre, però, la fortuna è dalla sua parte e strappa una folle vittoria in uno dei tracciati più prestigiosi d’America.
In un’intervista post-gara, i tifosi iniziano a cantare in coro, ma invece di ripetere il nome di Brandon insultano il presidente degli Stati Uniti e intonano il motivo che riecheggia da settimane negli stadi americani: FUCK JOE BIDEN!
Sarà la giornalista Kelli Stavast di NBC a trasformare quelle scurrilità in un momento iconico. La reporter infatti non comprende quello che stanno urlando dietro di lei (o forse sì e ha cercato di raccontarlo diversamente, a oggi non si conosce ancora la verità) e chiede a Brown se riesce a sentire la calda e cordiale dimostrazione d’affetto manifestata dai suoi tifosi: «Stanno cantando Let’s Go Brandon, li stai sentendo?».
Brandon Brown è diventato, suo malgrado, il simbolo della resistenza contro la presidenza di Joe Biden. L’innocenza di quel coro non è mai esistita. L’ha utilizzato persino l’ex presidente Donald Trump. In un primo momento Brown, sopraffatto dall’esposizione ottenuta su stampa, social network e telegiornali, ha provato a ignorare la strumentalizzazione politica del suo nome da parte della destra americana. Quelle tre parole, quel «Fuck Joe Biden!» mascherato è riuscito a finire anche in una conversazione con il diretto interessato, Joe Biden, in uno scherzo telefonico occorso nelle chiamate di Natale della Casa Bianca.
Il 20 dicembre 2021, Brandon Brown decide di uscire da una sorta di mutismo selettivo. In un editoriale intitolato «My Name Is Brandon» pubblicato su Newsweek, ha spiegato le ragioni del suo “silenzio”, dichiarando che «ha dovuto pensare agli sponsor» e «senza gli sponsor non si può guidare nella NASCAR», ma anche cercando di togliersi di dosso il fardello di quel coro, che ha rinnegato.
L’ultima parte del suo intervento è però quella che, nei toni e nei contenuti, segna una rottura con il comportamento che aveva adottato fino a quel momento:
Capisco che milioni di persone stanno lottando in questo momento e sono frustrate. Lottando per andare avanti e lottando per costruire una vita solida per sé stessi e per le loro famiglie, chiedendosi perché il loro governo sembra solo peggiorare la situazione. La gente ha diritto alla frustrazione, anche alla rabbia.
Ascoltate, io compro più benzina di molti altri. Non mi piace che 4 dollari al gallone siano diventati la norma. So che il costo di tutto sta aumentando e so per esperienza che sbarcare il lunario può essere difficile per la gente della classe media come me.
Non ho alcun interesse a condurre una battaglia politica. Io corro con le macchine. Non ho intenzione di appoggiare nessuno e certamente non ho intenzione di dire a nessuno come e cosa votare.
Ma non ho più intenzione di rimanere in silenzio sulla situazione in cui mi trovo e sul perché milioni di americani stanno cantando il mio nome. Io li sento, anche se Washington non lo fa.
Il 99% del mio tempo in questa stagione NASCAR sarà speso per cercare di fare il prossimo giro più veloce di quello precedente. Ma, quando avrò l'opportunità e il tempo, non esiterò a parlare delle questioni che mi appassionano o dei problemi che affrontiamo insieme come americani.
Come votate non è affar mio. Invece, userò il tempo libero che ho per evidenziare la lotta che tutti noi sentiamo e condividiamo, come americani.
Ai miei fan, ai fan della NASCAR e a tutti coloro che hanno cantato il mio nome: mi dedicherò questa stagione a competere duramente in pista e a mettere in luce le questioni che sono importanti per me e per milioni di americani in tutto il paese.
“Let's Go America”.
Un vano tentativo, quello di Brandon Brown, di ricompattare un popolo diviso, spaventato, arrabbiato e frustrato. Non c’è riuscito Joe Biden, che lo aveva promesso, e non ci riuscirà neanche lui. Al di là della ridicola proposta per soppiantare “Let’s Go Brandon!” con lo slogan “Let’s Go America”, quali azioni sono seguite a quest’articolo?
A una settimana da questo apparente senso di patriottismo, Brandon Brown ha annunciato che la sua vettura, la Chevrolet n. 68 della Brandonbilt Motorsport Team, sarebbe stata sponsorizzata per il resto della stagione (accordo poi rinegoziato in due anni) da LGBcoin.io, una criptovaluta chiaramente politicizzata che per nome ha l’eloquente acronimo “Let’s Go Brandon!”.
Dal suo sito:
LGBcoin.io è un meme token decentralizzato che ispira positività e patriottismo, fondato su una forte fede nel sogno americano e nei principi di libertà. This is America’s coin.
La NASCAR, dopo aver inavvertitamente approvato la richiesta, non ha apprezzato e ha imposto un divieto sulla sponsorizzazione, lasciando intendere che allo studio ci sarebbe un provvedimento che bandirebbe tutte le pubblicità a sfondo politico. Un evento che aveva già fatto alzare qualche sopracciglio si era verificato un anno prima con Bubba Wallace, il quale nel 2020 ha corso in pista con una livrea a tema Black Lives Matter, destando polemiche.
Il 25 settembre 2021, poco prima della nascita di “Let’s Go Brandon!”, il pilota JJ Yeley si è presentato con una vettura rossa su cui campeggiava la scritta «Your voice matters» accanto all’inconfondibile P di Parler, lo sfortunato social cancellato da tutte le piattaforme dopo l’assalto a Capitol Hill ma da maggio scorso di nuovo disponibile per il download in tutti gli store.
Il divieto impartito dall’alto ha scatenato un’ondata di affetto verso Brown. Una petizione su Change.org ha raccolto quasi 15.000 firme e a sostenere il pilota 28enne si è unito anche il governatore della Florida Ron DeSantis, contrario a quanto stabilito dalla NASCAR.
La NASCAR è dunque diventata il campo di battaglia per l’egemonia culturale negli Stati Uniti.
Le due nazioni che vivono all’interno di questo gigantesco Paese, una riformista, liberale e intellettuale, che vive nelle grandi città e sulla costa, e l’altra, dell’Heartland rurale, ancorata a un passato glorioso, da conservare, liberale (a parole) contro la tirannia Democratica, si danno filo da torcere per vincere questa lotta per il futuro dell’America. Un’America ipocrita e irrimediabilmente divisa, che continua a colpirsi da sola, mentre il resto del mondo osserva preoccupato e disgustato.