Flash #9: Trump si può candidare, ma la Corte Suprema non è così unanime come sembra
L'ex presidente vince la disputa con il Colorado con nove giudici, ma questo apparente consenso rivela comunque dissidi nella corte.
“Oggi è un grande giorno per gli Stati Uniti d’America”. Queste sono le parole di Donald Trump, scritte sulla piattaforma Truth, il Social media di stampo conservatore da lui creato dopo essere stato allontanato da Twitter, al momento dell’uscita della sentenza della Corte Suprema “Trump v. Anderson”, terminata con l’opinione favorevole all’ex-presidente di nove giudici a zero.
Del caso si è parlato tanto nei mesi precedenti: un gruppo di votanti del Colorado, di cui quattro repubblicani e due indipendenti, aveva posto la questione di incandidabilità di Donald Trump secondo la terza sezione del quattordicesimo emendamento, che determina la possibilità di impedire a persone che precedentemente si erano ribellate agli Stati Uniti di ricandidarsi. Chiaramente il quadro storico di riferimento è la fine della Guerra Civile, in cui un’America nuova tentava di lasciarsi alle spalle un conflitto fratricida basato su due diverse idee del mondo. La Corte Suprema del Colorado aveva determinato che Trump, in quanto si era reso partecipe il 6 gennaio del 2021 di un’insurrezione ai danni del Paese, poteva essere squalificato dalla competizione elettorale nello Stato; la sentenza ha fatto sì che altri Stati con corti a maggioranza democratica ne seguissero l’esempio.
Ieri la Corte ha risposto a questa possibilità con un verdetto “per curiam”, non firmato da nessuno e che determina – almeno parzialmente – la visione di tutti e nove i giudici. Nella sentenza si determina che gli Stati hanno la possibilità di decidere se persone possono essere o meno presenti sulla scheda elettorale solo in caso di elezioni a cariche statali; questo anche perché, da una prospettiva storica, il quattordicesimo emendamento serviva a limitare il potere degli Stati – impedendo loro, tra le altre cose, di privare della libertà personale senza giusto processo qualsiasi cittadino – mentre l’idea che uno Stato possa arbitrariamente togliere un candidato da un ufficio federale garantirebbe ampi poteri. Per quanto poi concerne l’ufficio più importante, la Presidenza degli Stati Uniti, è tutto ancora più problematico: se alcuni Stati squalificano un candidato e altri no si generano differenze poco democratiche, che fanno sì che una persona possa legittimamente vincere le elezioni, senza aver avuto la possibilità di candidarsi in alcuni Stati in quanto definito insurrezionista e quindi senza poter essere votato da parte dei cittadini che si trova adesso a guidare.
Fino a qui la decisione è condivisa da tutti: successivamente però la Corte va oltre, determinando che l’attuazione della terza sezione può avvenire soltanto dopo il voto di uno Statuto federale da parte del Congresso, a oggi inesistente. Questo fa sì che, nel caso di vittoria di Trump, a gennaio del 2025 il Congresso non potrà, nemmeno a maggioranza qualificata, definire Trump un insurrezionista e negargli la presidenza, in quanto non esiste uno statuto in materia, e non verrà certamente scritto in questi mesi. Quest’ultima parte viene osteggiata dai tre giudici di area liberal, che aggiungono alla decisione un verdetto in concomitanza da loro firmato in cui si trovano d’accordo sul caso in esame, ma argomentano che la Corte ha voluto andare oltre, e non concordano con la necessità di una precedente legge del Congresso anche perché il Congresso stesso possa discutere di insurrezione; per questo dovrebbe bastare l’emendamento costituzionale.
La decisione della Corte non era inaspettata, e nemmeno questo verdetto bulgaro: è importante notare, però, le differenze marcate tra le tendenze giurisprudenziali in questo caso di scuola, anche se risolto all’unanimità.