Flash #76: Alligator Alcatraz: dove comincia l’America che punisce
Nelle Everglades della Florida, il presidente Trump ha inaugurato un centro di detenzione tra caimani e terre sacre. Qui la natura diventa frontiera armata e la paura si fa politica migratoria
Nel cuore umido delle Everglades, Florida, dove la strada scompare tra le mangrovie e i serpenti si annidano sotto i resti delle vecchie piste d’atterraggio del Dade-Collier Training and Transition Airport, sta nascendo un nuovo simbolo dell’America trumpiana. Si tratta di Alligator Alcatraz, un centro di detenzione per migranti irregolari edificato a 60 chilometri da Miami per volontà del presidente Donald Trump e del governatore Ron DeSantis.
Il luogo non è stato scelto a caso: proprio dove la natura è più ostile all’uomo e il paesaggio sembra voler punire chiunque provi ad attraversarlo, il governo della Florida ha deciso di realizzare la sua ultima frontiera contro l’immigrazione irregolare. Trump lo ha inaugurato in pompa magna il 1° luglio, accompagnato proprio da DeSantis e dalla segretaria alla Sicurezza Interna Kristi Noem. Tra le numerose strette di mano, i persistenti sorrisi alle telecamere e una serie di battutine ciniche rivolte ai potenziali visitatori della struttura, («Dovranno correre a zig zag per cercare di non farsi prendere da un caimano»), Trump ha sdoganato ufficialmente quello che vuole essere un campo di internamento a tutti gli effetti.
Il progetto, presentato come una soluzione di carattere logistico per decongestionare i centri ICE perennemente sovraffollati, ha una capienza massima di cinquemila persone. Eppure, questa cifra è solo un dettaglio in uno strumento che sembra fondarsi apertamente su un simbolismo estremista: quello della reclusione, della natura incontaminata e profondamente ostile a mo’ di guardia carceraria dell’America che cerca di barricarsi dietro il tanto decantato mito della sopravvivenza e delle seconde possibilità. Definito un carcere-show, Alligator Alcatraz è diventata nel giro di pochissimo tempo una sorta di spettacolarizzazione della deterrenza, data in pasto al web e soprattutto ai social network. È una prigione che non sembra tale, ma che affonda nell’immaginario di un Paese che pare compiacersi delle punizioni che può infliggere.
Le reazioni (negative) sono state immediate. Le comunità indigene Miccosukee e Seminole hanno denunciato la violazione delle proprie terre sacre e avviato delle azioni legali. I leader dei nativi americani della regione hanno interpretato la costruzione come un’invasione delle loro terre sacre, portando alle proteste che si verificano nella zona dallo scorso sabato. Nella Big Cypress National Preserve, dove si trova la pista d’atterraggio, rimangono ancora ben quindici villaggi tradizionali Miccosukee e Seminole, oltre a luoghi cerimoniali, cimiteri e altri siti di incontro. Gli ambientalisti, invece, parlano di un disastro annunciato: non c’è nessuna valutazione dell’impatto ambientale di questa struttura, nessun rispetto per la biodiversità e – al contrario – si finisce per sottoporre a un ulteriore stress un ecosistema di per sé già fragile.
Le organizzazioni per la tutela dei diritti umani hanno definito il progetto di Trump un “insulto alla dignità dei migranti e un esperimento crudele che mette a rischio numerose vite in nome di una narrativa distorta”. Nel frattempo, i Repubblicani esultano. La stessa Noem ha parlato più volte di self-deportation e ne ha incoraggiato la pratica per il futuro. Nancy Mace ha proposto di replicare il modello in South Carolina, mentre il Presidente ha continuato imperterrito a rilanciare i suoi messaggi come se fossero un mantra, con toni iperbolici e privi di empatia.
Una cosa è certa: il centro, edificato senza dibattito pubblico e in deroga a molte norme ambientali e urbanistiche, rappresenta una deriva non solo politica ma anche culturale. Parla a una nazione che vuole trattare la sicurezza come se fosse una questione di muscoli e confini invalicabili. Fa gola a un elettorato che ha bisogno di vedere con i propri occhi il prezzo dell’immigrazione e parla a un mondo in cui la gestione dei flussi migratori diventa teatro di crudeltà e una disumana forma di propaganda. Ci si chiede in tutta onestà se sia veramente questo il futuro della gestione migratoria. La visione per cui il migrante è sempre e solo il nemico, la natura è una trappola e un sentimento come la paura diventa architrave della politica ci fa credere di vivere in una società contemporanea sempre più distopica.