Flash #75: gli Stati Uniti hanno colpito l’Iran. E ora?
Nonostante i bombardamenti, l’Iran può ancora sviluppare un’arma atomica. Trump riuscirà a vendere questo fallimento come una vittoria ai suoi elettori?
Se qualcuno fosse ancora stato convinto che la presidenza Trump sarà caratterizzata da un rinnovato isolazionismo americano, scevro di iniziative militari nel mondo, le ultime due settimane in Medio Oriente dovrebbero averlo fatto ricredere.
Per riassumere quel che è successo, dobbiamo partire dal 12 aprile scorso, quando sono iniziati i nuovi negoziati tra Stati Uniti e Iran sul programma atomico iraniano. In quei giorni, Donald Trump, che nel 2018 era stato responsabile del ritiro statunitense dal precedente accordo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), aveva chiesto un nuovo accordo alla leadership iraniana che impedisse al Paese l’utilizzo del suo programma atomico per scopi bellici. I negoziati erano continuati per due mesi, anche se intervallati da minacce reciproche nel caso in cui l’accordo non fosse stato raggiunto o gli Stati Uniti e Israele avessero attaccato l’Iran.
Il 12 giugno, al culmine delle tensioni, l’International Atomic Energy Agency (IAEA) ha riconosciuto che l’Iran non stava rispettando i suoi obblighi nella gestione del programma atomico. Il giorno dopo, l’aviazione israeliana ha iniziato una serie di raid contro l’Iran, colpendo infrastrutture militari, siti nucleari, scienziati e diversi membri della leadership militare iraniana. Le operazioni sono continuate per diversi giorni, e mentre Israele ha preso il controllo dello spazio aereo iraniano, il regime di Teheran è riuscito a rispondere solo con lanci di missili e droni, spesso intercettati dai sistemi difensivi israeliani.
Inizialmente, gli Stati Uniti hanno affermato attraverso il Segretario di Stato Marco Rubio di non essere coinvolti negli attacchi. In un governo che ruota attorno al suo Presidente, però, affermazioni del genere potevano avere poca durata: nella notte tra il 21 e il 22 giugno, Trump lo ha ricordato a tutti. Nonostante la contrarietà della sua base MAGA verso nuovi interventi militari (come dimostrato dalle parole di Tucker Carlson e Marjorie Taylor Greene), Trump ha deciso di dare ascolto all’appello del presidente israeliano Benjamin Netanyahu e dei repubblicani più inclini all’attacco, ordinando all’aviazione americana di colpire gli impianti iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan.
Dopo una debole risposta iraniana, con il lancio di alcuni missili contro la base americana di Al-Udeid in Qatar, martedì 24 giugno Trump ha annunciato di aver obliterato il programma nucleare iraniano e richiesto un cessate il fuoco con vari messaggi sul suo social, Truth, e dichiarazioni pubbliche. Per concludere, nella serata italiana fonti interne hanno diffuso i risultati di un report della Defense Intelligence Agency, secondo cui le infrastrutture colpite dalle bombe americane non sarebbero state distrutte, ma parzialmente danneggiate, rallentando il programma nucleare iraniano solo di alcuni mesi.
L’intervento americano doveva essere il passo risolutivo. I bombardieri strategici B-2 e le loro bombe MOP (Massive Ordnance Penetrator) di tredici tonnellate dovevano riuscire in ciò che gli Israeliani non potevano fare da soli, eliminando soprattutto l’impianto di Fordow, nascosto in una montagna a nord della città di Qom. E ora? Mentre stiamo scrivendo, la situazione è in continua evoluzione; tuttavia, alcune riflessioni possono già essere fatte.
Innanzitutto, va ribadito un concetto: come già visto durante la sua prima presidenza, Trump non ha alcuna intenzione di rinunciare allo strumento militare nella sua politica estera. Il suo continua a essere un isolazionismo à la carte, che lascia volentieri agli europei il compito di fornire aiuti militari all’Ucraina, ma non rinuncia al supporto militare verso Israele e Netanyahu. Questo potrebbe essere considerato un tradimento delle promesse elettorali trumpiane, ma nonostante il 56 per cento degli americani si sia dichiarato contrario agli attacchi contro l’Iran, non è scontato che queste dimostrazioni di potenza indeboliscano, invece di rafforzare, il rapporto dell’elettorato repubblicano con il proprio leader. Se le operazioni americane nella regione resteranno limitate, Trump potrebbe riuscire a vendere il blitz in Iran come un attacco rapido e indolore, capace di raggiungere gli obiettivi americani senza iniziare una guerra infinita, come quelle in Iraq e Afghanistan.
In realtà, nonostante l’opinione di Trump e dei suoi supporter, sembra chiaro il fallimento strategico delle incursioni in territorio iraniano. Al momento, sebbene più lentamente, l’Iran può ancora fabbricare ordigni atomici, mentre il suo regime non dà i segnali di cedimento che molti a Tel Aviv e Washington speravano. Certamente, la guerra l’ha indebolito; ma invece di costringere l’Iran a nuovi negoziati, le sconfitte dei suoi alleati Hamas e Hezbollah, il logoramento del suo apparato militare contro Israele e la contemporanea dimostrazione che Cina e Russia non interverranno in suo soccorso potrebbero aver convinto Teheran che solo l’arma atomica garantirà la sopravvivenza dello Stato.
Sapendo che gli Stati Uniti sono pronti a intervenire militarmente e che nessun accordo con loro potrebbe essere stabile, se l’Iran continuerà il suo programma atomico, cercherà di agire ancora più di nascosto agli occhi del mondo. Trump farà qualcosa per impedirlo o smetterà di interessarsi del problema, come già ha fatto con l’invasione russa in Ucraina?