Flash #72: Sul luogo dell'attacco al corteo per gli ostaggi israeliani in Colorado
La nostra corrispondente ha raccolto alcune reazioni della comunità di Boulder il giorno dopo l'attacco

Passeggiando per il piazzale pedonale di fronte al tribunale distrettuale su Pearl Street, arteria pulsante di negozi e ristoranti a Boulder, in Colorado, nel primo pomeriggio di lunedì 2 giugno, l’impressione è che sia un giorno infrasettimanale come un altro. Un gruppo di ragazzini mangia tranci di pizza sulle panchine sotto un abete. Il chioschetto di cibo nepalese vende momo a sporadici turisti. Un giovane corriere di Amazon consegna pacchi alla porta del tribunale. Tre agenti della polizia locale – non uno di più – chiacchierano sorridendo appoggiati ai bidoni comunali per la raccolta differenziata.
Il sospetto che non si tratti di un lunedì qualunque sorge osservando lo spiegamento di fotografi e telecamere di reti televisive locali e nazionali sul lato destro del tribunale. Giornalisti appostati in diversi punti del piazzale intervistano uomini con la kippah sulla testa. Visitatori depositano mazzi di fiori sul prato.
Esattamente ventiquattr’ore prima, in questo stesso posto un uomo ha lanciato due molotov su un corteo di Run For Their Lives, un’associazione attiva in 230 città nel mondo (tra cui Roma e Genova) che organizza marce a sostegno degli ostaggi israeliani. Dodici persone, di età tra i 52 e gli 88 anni, hanno riportato ustioni di natura più o meno grave; due vittime versano in serie condizioni presso l’unità ustioni di un ospedale di Denver. Diverse fonti riportano che la vittima di 88 anni era sopravvissuta all’olocausto.
Il responsabile dell’attacco si chiama Mohamed Sabry Soliman, ha 45 anni ed è di nazionalità egiziana. Testimoni oculari hanno riferito che nel momento dell’attacco Soliman ha gridato: “Palestina libera”. Soliman ha confessato di aver pianificato l’attacco per un anno e di non avere alcun rimpianto. L’attacco, oggetto di indagini federali anche da parte dell’FBI, rappresenta una complessa intersezione tra due temi caldi del dibattito pubblico statunitense: la guerra di Israele a Gaza e l’immigrazione.
Soliman, infatti, si troverebbe negli Stati Uniti senza documenti regolari. È arrivato nel 2022 con un visto turistico insieme a moglie e figli, stabilendosi a Colorado Springs (150 chilometri a sud di Boulder) e facendo domanda di asilo, grazie alla quale ha ottenuto un permesso di lavoro. Alla scadenza del visto turistico la sua domanda di asilo era ancora in attesa di approvazione e, nel frattempo, anche il permesso di lavoro è scaduto. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale non ha offerto ulteriori dettagli sullo stato migratorio di Soliman.
Sul luogo dell’attacco permane un’atmosfera di ossequio e riflessione. Una donna seduta su una panchina di fronte al tribunale fissa il vuoto di fronte a sé con un’espressione grave: è qui per rendere omaggio alle vittime e per rispetto nei loro confronti chiede di non essere intervistata.
David e Jeremy, invece, circolano per il piazzale distribuendo i volantini di Stories of Antisemitism, un’associazione cristiana per la difesa della sicurezza delle persone ebree. “Si respira un’atmosfera strana, qui, oggi”, dice Jeremy, fondatore dell’associazione. “Sobria da un lato, dall’altro i turisti camminano per la strada come se nulla fosse”.
David cita la Bibbia per condannare l’attacco del giorno prima: “Migliaia di persone pensano che questa sia una forma giustificata di resistenza”, dice. “Io penso che la maggior parte di loro abbia la mente troppo chiusa per ascoltare. Sono tutti bravi a categorizzare gli altri, ma è un modo di pensare pigro, che toglie umanità al dibattito. Dovremmo impegnarci di più nel parlare con il prossimo”.
Sul bordo della fontana immediatamente di fronte al tribunale siedono Andy e Miles, 30 e 29 anni. Andy aveva appuntamento con un corteo di attivisti vegani proprio qui il giorno prima, mezz’ora dopo l’attacco. È arrivato in bici mentre la polizia transennava le strade intorno al tribunale. “C’era un’atmosfera di angoscia”, racconta Andy. “Anche chi non aveva visto la scena si trovava in stato di agitazione. La pace è una cosa delicata”.
Andy e Miles sono i proverbiali hippy alla Boulder, città conosciuta per lo spirito alternativo e controculturale. È proprio questo spirito che i due uomini hanno voluto portare sul luogo dell’attacco di domenica 1 giugno: “Sono venuto qui per restituire un senso di pace a questa zona colpita da violenza”, spiega Miles mentre suona una piccola campana tibetana, prima di chiudere gli occhi e mettersi in posizione del loto. “Non ho nessuna motivazione politica per essere qui. La politica non rientra nelle mie competenze. Semplicemente, sento una connessione personale molto forte con tutti gli esseri umani e voglio che coesistiamo in maniera pacifica. Qualsiasi turbamento di questo ordine è triste e atroce”.
Anche Andy non desidera esprimersi sugli scenari politici del Medio Oriente che motivano attacchi come quello di Boulder, oltre a voler trasmettere un messaggio di pace. “Ho il cuore spezzato. Le persone hanno idee e pensieri che vengono poi convertiti in atti inenarrabili. È una disgrazia che questo conflitto dall’altra parte del mondo [tra Israele e Gaza, ndr] sia arrivato qui a Boulder”.
Andy, che di mestiere insegna yoga, si esprime con tono soffice e pacato. “L’opinione di tutti è valida”, prosegue, “tranne le convinzioni che hanno a che fare con la violenza, a prescindere dalla propria identità spirituale e culturale. Nel momento in cui cominci a lanciare bombe incendiarie, sei automaticamente nel torto”.