Flash #67: L’amministrazione Trump è pronta a deportare quasi diecimila cittadini afghani
Dal 20 maggio è previsto l'inizio del processo di deportazione che metterà a rischio migliaia di cittadini afghani attualmente sotto tutela negli Stati Uniti: lo ha deciso Kristi Noem
Si stima che siano in totale 14.600 i cittadini afghani a rischio deportazione dagli Stati Uniti dopo la recente decisione dell’amministrazione Trump di sospendere la protezione temporanea (TPS) conferita a un popolo in fuga dal dominio dei talebani. La presa di posizione si allinea con uno dei tanti ordini esecutivi emessi lo scorso 20 gennaio – giorno di ufficiale insediamento della Presidenza Trump – con cui era stato sospeso il programma di re-integrazione per i cittadini afghani.
Il radicale cambio di rotta sulla protezione temporanea nasce dopo una valutazione della Segretaria alla Sicurezza Interna, Kristi Noem, che avrebbe ritenuto che le attuali condizioni nel Paese d’origine non giustifichino più il conferimento dello status di rifugiato ai cittadini afghani negli Stati Uniti. Secondo i funzionari dell’amministrazione, infatti, il TPS sarebbe stato finora sfruttato impropriamente, per consentire alle persone di rimanere negli Stati Uniti a tempo indeterminato. La decisione di Noem ha avuto un tempismo mediatico perfetto, arrivando nello stesso giorno in cui il sistema delle Corti statunitensi ha stabilito il diritto dell’amministrazione Trump a espellere Mahmoud Khalil, giovane laureato della Columbia University arrestato per il suo coinvolgimento nelle proteste pro-Palestina.
I dati forniti dal Congressional Research Service raccontano che, sul finire del 2024, erano più di novemila i cittadini afghani sotto TPS, programma che, di fatto e contrariamente a quanto affermato dall’amministrazione Trump, permette di vivere legalmente negli Stati Uniti proteggendo gli immigrati dal rimpatrio in Paesi colpiti da conflitti o disastri naturali.
L’amministrazione Biden aveva individuato, per la prima volta nel 2022, le persone in fuga dall’Afghanistan come aventi diritto al TPS in seguito ai crescenti disordini generatisi sotto il regime talebano, iniziati dopo il ritiro delle truppe statunitensi un anno prima. Nel 2023, poi, il programma era stato ulteriormente esteso come risultato delle valutazioni dell’amministrazione democratica sul perdurare di una diffusa situazione di pericolosità in Afghanistan.
Ai novemila cittadini afghani sotto TPS si aggiungono anche quelli a cui erano stati concessi visti speciali per l’immigrazione (SIV), prevedendo l’avvio di un percorso verso una residenza stabile e permanente negli Stati Uniti. Dal ritiro delle truppe nell’agosto 2021, un totale di 180.000 cittadini afghani era stato ammesso entro i confini americani. Il ritorno in Afghanistan potrebbe voler dire, per queste persone, affrontare apertamente persecuzione e morte, trattandosi di profili che hanno aiutato e supportato le forze statunitensi durante la ventennale guerra in Afghanistan, insieme alle loro famiglie.
Tuttavia, secondo quanto riportato da Tricia McLaughlin, assistente Segretaria per gli Affari Pubblici presso il Dipartimento di Sicurezza Interna, la recente decisione di Noem si baserebbe su una rivalutazione del programma operata non solo da lei, ma anche dall’U.S. Citizenship and Immigration Services (USCIS) congiuntamente con il Dipartimento di Stato. Secondo il New York Times, poi, la decisione non prenderebbe di mira unicamente i cittadini afghani, ma anche le persone provenienti dal Camerun, e punterebbe ad avviare le procedure di deportazione a partire dal 20 maggio. Prima di questa data, l’amministrazione attualmente in carica ha offerto l’opportunità – con una e-mail – ai diretti interessati di auto-deportarsi.
Tra i ranghi conservatori e repubblicani, tuttavia, non tutti sembrano supportare la decisione presa dalla Segretaria Noem: a sollevare perplessità rispetto alla deportazione collettiva dei cittadini afghani, la presenza tra di loro anche di cristiani fuggiti dalle persecuzioni talebane. Come racconta l’opinionista Julie Tisdale, la comunicazione è stata ricevuta dai diretti interessati pochi giorni prima della Domenica delle Palme, alimentando apprensione e malcontento nelle comunità di fedeli.
Un esempio di resistenza sono i membri di Apostles Raleigh – una chiesa anglicana della Carolina del Nord – i quali si sono recentemente attivati per fare pressione sull’amministrazione, nella speranza di stimolare la presidenza a non dare materialmente avvio alla deportazione. Diversi gruppi di advocacy religiosa si stanno mobilitando in tutto il paese a tutela di circa 300 cristiani afghani, insistendo sulle differenze esistenti tra cittadini entrati legalmente negli Stati Uniti e a rischio di tortura e morte per la propria fede, e la propagandistica figura negativa dell’immigrato criminale da espellere legittimamente.
Sembrerebbe che l’amministrazione abbia avviato una serie di valutazioni per permettere all’esiguo gruppo – rispetto ai più di diecimila che rischierebbero in ogni caso la propria vita tornando in Afghanistan – di rimanere negli Stati Uniti. In una esclusiva per POLITICO, alcuni funzionari dell’amministrazione avrebbero parlato di una “lista di esenzione” dalla deportazione che andrebbe a tutelare proprio i cristiani afghani. Una decisione finale non è ancora stata presa, ma la direzione in cui si sta muovendo l’amministrazione Trump sembrerebbe proprio essere quella di spingere i cristiani afghani a chiedere asilo, come anticipato dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt.
Provvidenziale l’intervento della megastar evangelica e pastore part-time del Presidente Franklin Graham che, avendo incontrato Trump e la Segretaria Kristi Noem, sarebbe intervenuto proprio in favore dell’eccezione, stimolando riflessioni su piccoli passi indietro da prendere e attesi prima delle deportazioni indiscriminate calendarizzate per il 20 maggio.