Flash #29: È successo, e ora?
Joe Biden non è più il candidato Presidente dei Democratici; qualche analisi a caldo sui prossimi passi.
Una domenica di fine marzo del 1968 Lyndon Johnson, Presidente degli Stati Uniti, fece un discorso a reti unificate; quel discorso, in cui parlò approfonditamente della situazione del Vietnam per molti minuti, non sarebbe mai stato ricordato per quel motivo. Alla fine, visibilmente provato, annunciò che non se la sentiva di rimanere candidato e pertanto non avrebbe cercato di ottenere una rielezione. Johnson stava subendo le proteste per la guerra in Vietnam e il Paese era sull’orlo del collasso: la Convention, che si tenne in estate a Chicago, fu disastrosa per l’immagine del partito, attaccato da sinistra da migliaia di giovani, brutalmente caricati dalla polizia.
In una domenica di fine luglio, a meno di un mese da un’altra convention del Partito Democratico a Chicago, Joe Biden ha accettato quello che da qualche settimana in molti gli chiedevano: non è più il candidato dei Democratici alla Casa Bianca. L’annuncio, arrivato su X e subito seguito dall’endorsement alla vicepresidente Kamala Harris, non ha destato sorpresa nel mondo politico americano: oramai non era più questione di se, solo di quando. Getta però varie ombre su come i Democratici hanno gestito questa campagna, prima convinti che Biden fosse l’unico a poter sconfiggere Trump, nonostante l’età avanzata e vari sondaggi che rimarcavano come molte persone non avrebbero voluto dover scegliere tra i due, e poi veloci a far crollare la sua candidatura dopo la pessima prestazione al dibattito di cui abbiamo parlato approfonditamente.
Il comitato Biden ha cambiato velocemente nome in “Harris for President”, campagna che dovrà fare in pochi giorni decisioni cruciali, che di solito impiegano mesi: innanzitutto la scelta di un vicepresidente, che solitamente necessita di vari incontri di confronto che dovranno per forza essere ridotti. A oggi le figure più accreditate secondo i media statunitensi sono il Governatore del Kentucky Andy Beshear, il Senatore dell’Arizona Mark Kelly e il Governatore della Pennsylvania Josh Shapiro; tutti e tre uomini bianchi, che bilancerebbero la figura di donna di colore incarnata dalla candidata. Due di questi, Kelly e Shapiro, vengono da Stati in bilico e che sarebbe fondamentale per i Democratici mantenere, fattore da non sottovalutare nella scelta.
Altro punto da tenere in considerazione è se Harris avrà un’opposizione vera all’interno del Partito: Harris ha bisogno del voto dei delegati alla Convention che ora sono tutti liberi di votare chi vorranno. Fino a ieri sembrava possibile che un politico democratico potesse costruire una candidatura alternativa, anche per ricevere spazio televisivo, utile per diventare più conosciuto per ruoli futuri. Tutto è però cambiato nella notte, in quanto Harris ha compattato le figure apicali del partito, ottenuto moltissime donazioni e anche il sostegno della maggioranza dei delegati che voteranno alla convention. Tutti i 23 governatori democratici, 186 deputati e 41 senatori hanno pubblicamente dichiarato il loro endorsement, e questo porterà, con ogni probabilità, a una nomination veloce.
In terzo luogo, ancora non c’è la certezza di quando si terrà il Roll Call, cioè il voto delegazione per delegazione per il candidato Presidente, che solitamente si tiene nella prima sera di Convention: nell’ultimo tentativo di mantenere la nomination, Biden aveva cercato di anticiparlo e di tenerlo online, in modo da evitare possibili dissensi trasmessi in diretta televisiva. Il piano non è andato a buon fine, ma c’è comunque la possibilità che la votazione si terrà prima del 19 agosto: quella settimana, infatti, si chiudono le possibilità di iscriversi alle elezioni negli Stati di California e Washington, un processo burocratico di registrazione della candidatura. Per non incorrere in problemi legali, i Democratici vorrebbero comunque tenere la loro nomina precedentemente, e questo darebbe ancora meno tempo di costruire una possibile candidatura alternativa.
In chiusura, è interessante capire di cosa ha parlato il campo Repubblicano ieri: Kamala Harris è stata subito dipinta come una radicale esponente della sinistra del Partito, nonostante nel suo Stato, la California, sia considerata moderata rispetto a figure come il Governatore Gavin Newsom. Un cambiamento importante della campagna sarà il ruolo – già preponderante – del diritto all’aborto: Biden non lo aveva citato nei due minuti liberi concessi a ogni candidato alla fine del dibattito, generando arrabbiature nel partito. Il diritto all’aborto è un tema trasversale tra gli americani, che può punire i Repubblicani: Trump ha smesso di parlarne approfonditamente, sapendo che le sue posizioni sul tema rischiano di fargli perdere consensi. Se Biden è un cattolico praticante che ha abbracciato un diritto all’aborto pieno e completo solo nell’ultima fase della sua vita, Harris da sempre si è battuta per questo tema: nell’ultimo anno è stata in molte città americane per raccontare i danni causati dal ribaltamento della sentenza Roe v. Wade del 1973, che aveva garantito il diritto federale all’aborto.
Trump, tra l’altro, non è più così convinto dei dibattiti: si era accordato con Biden per due confronti, uno a giugno sulla rete televisiva CNN, e uno a settembre su ABC. Ieri su Truth Social, il suo social network creato dopo essere stato bannato da X, allora Twitter, ha affermato che vorrebbe spostare il dibattito di settembre, che oggi dovrebbe fare con Harris, su Fox News, rete all-news molto vicina alle posizioni conservatrici. Detto ciò, i Repubblicani, come i Democratici, navigano a vista e devono ricalibrare una campagna nata in opposizione a Joe Biden per un’avversaria da lui molto diversa; nonostante questo le maggiori agenzie di sondaggi continuano a ritenere favoriti i Repubblicani.