Flash #22: Il disastro di Lewis al Washington Post
Ha avuto il compito di risollevare le sorti del giornale, ma in pochi mesi si è reso protagonista di scandali e azioni contestate. Tutta la redazione è contro di lui
C’è grande confusione al Washington Post. Da novembre 2023 il nuovo editore è Will Lewis, britannico della scuderia di Rupert Murdoch. È stato chiamato dalla proprietà per risollevare i conti e i risultati del giornale fondato nel 1877, uno dei più autorevoli quotidiani americani, dove venneero pubblicati gli articoli riguardanti l’indagine Watergate che fece dimettere il presidente Nixon.
Sono proprio Lewis e Murdoch i protagonisti di una storia che ha scatenato una catena di scandali. Ci sono più conferme una storia secondo cui Lewis abbia forzato la mano per aiutare l’imprenditore dei tabloid inglesi e americani riguardo al controverso caso degli hackeraggi telefonici in Regno Unito, un caso che ha portato alla chiusura del News of the World, tabloid di proprietà dello stesso Murdoch; infatti, un articolo proprio del quotidiano di Washington metteva in evidenza il legame intercorrente tra Lewis e Murdoch nelle nuove cause legali in Regno Unito. Lewis, dunque, avrebbe imposto alla direttrice del giornale Sally Buzbee di non pubblicare il pezzo in quanto “non giustificava copertura e rappresentava un errore di giudizio”.
Si è arrivati ora allo scontro tra Lewis e la redazione del Post. Secondo alcuni giornalisti intervistati si respira la tensione tra l’editore, inglese, e un posto di lavoro diverso da quelli britannici. L’apice è stato certamente raggiunto con l’intromissione di Lewis nella pubblicazione dei contenuti. In Europa, dove le ingerenze degli editori sono all’ordine del giorno, questo fatto avrebbe destato uno scandalo dalla portata più bassa ma in America non è considerata normale, e ammissibile, un’interferenza così diretta dell’editore. Non è difficile fare un paragone con Jeff Bezos, che aveva comprato la testata nel 2013 senza mai porre veti, neanche quando si parlava male delle sue aziende. Lewis difficilmente riuscirà a recuperare la credibilità perduta: un giornalista afferma che l’intera redazione è contro di lui, accusato di gestire in modo pessimo un momento delicato. Il Post ha bisogno di soldi ed è chiaro a tutti l’obbligo di apportare cambiamenti. Nessuno, però, apprezza le recenti mosse dell’editore. Le testimonianze raccontano di mail notturne dove annuncia la creazione di una terza redazione, da affiancare alla principale e a quella delle opinioni, di taglio più leggero e pare che volesse affidarla proprio alla direttrice Sally Buzbee. Buzbee ha letto questa mossa come un declassamento, dato che dirigeva l’intero quotidiano.
I problemi per Lewis arrivano anche dall’esterno. David Folkenflik, giornalista di NPR, ha dichiarato che l’editore del Post, appena insediato, gli avrebbe offerto ripetutamente un’intervista esclusiva sul futuro della testata in cambio della soppressione delle stesse notizie sul suo ruolo nella vicenda dell’hackeraggio, che tanto scalpore hanno causato in redazione.
Lewis ha messo momentaneamente al posto di direttore Matt Murray, che aveva lavorato con lui al Wall Street Journal, per poi spostarlo a capo dell’area social dopo le elezioni di novembre. La direzione sarà affidata, al termine del delicato processo elettorale, a Robert Winnett, londinese e collaboratore di Lewis al Sunday Times e al Telegraph. Queste scelte sono state duramente criticate perché irrispettose. Innanzitutto, le tre figure di spicco del giornale saranno tutti maschi bianchi e in redazione sono convinti che siano stati scelti più per il rapporto personale con l’editore che per reali meriti. Ovviamente anche su questo fronte si è aperta una battaglia, dove l’editore sostiene che siccome la gente non legge più gli articoli del Post, giornale che sta subendo una forte perdita, è necessaria una rivoluzione del sistema. Affidarsi ad una guida britannica sembra la nuova strada per riemergere dalle difficoltà; già CNN, Wall Street Journal e Bloomberg News sono capitanate da tre londinesi, che però, come accennato sopra, hanno una cultura editoriale del tutto opposta da quella in auge nelle grandi redazioni americane.