Flash #16: il grosso guaio in cui si è cacciata la Columbia University
Nemat Shafik ha fatto un grosso errore di calcolo. In ballo c'è il futuro dell'Accademia come luogo di libertà
Le università non sono Stati, o aziende, per quanto molte possano sembrarlo. Come ricorda George Packer, riprendendo parole dello storico Richard Hofstadter, esse sono «un tipo speciale di comunità, dedicata alla ricerca, la cui legittimità dipende dal riconoscimento reciproco, in uno spirito di ragione, apertura e tolleranza. Al centro di questo spirito c’è la libertà di parola, che però non può fiorire in un’atmosfera di costante molestia».
In simili comunità la governance non può far rispettare regole e far valere la propria autorità semplicemente imponendole con la forza o con la minaccia. L’autorevolezza deve essere guadagnata, le regole devono essere chiare, ogni ricorso alla forza e alla censura deve costituire un’estrema ratio in circostanze di particolare pericolo. Le università americane hanno da anni problemi con questi concetti, in un continuo balletto tra il rispetto dei diritti di parola e l’obbligo di proteggere individui da discriminazione e molestia. Le nuove ortodossie del progressismo, unite agli istinti illiberali del conservatorismo, ne hanno fatto uno spazio di continuo scontro, in cui un sano dibattito su qualsiasi tema è diventato un’impresa e in cui la stessa amministrazione ha da tempo rinunciato alla neutralità di punto di vista, garanzia di pluralismo e libertà. La stessa percezione pubblica dell’istruzione superiore cade vittima di queste dinamiche, con sempre meno persone che vedano in buone luce, o come un buon investimento per sé o i propri figli, le istituzioni universitarie, specialmente quelle private.
Questo è l’ambiente da cui emerge l’impasse in cui si trova la Columbia in questi giorni. Dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, studenti di tantissimi college e università, di élite o meno, hanno partecipato a proteste e azioni in supporto alla causa palestinese. La maggior parte di chi partecipa a queste dimostrazioni lo fa in buona fede, perché angosciato e scioccato di fronte alle notizie di continua violenza e morte a cui viene sottoposta la popolazione della Striscia di Gaza. Come molti altri prima di loro, vogliono in futuro guardare a questo periodo storico sapendo di essere stati dalla parte giusta, di aver preteso soluzioni. Questo include anche molti studenti ebrei, a testimonianza del pluralismo che caratterizza la comunità ebraica americana. Tuttavia, esattamente come in passato, molti sanno poco o nulla del conflitto, la sua storia, la complessità della questione. Cantano slogan e inni senza conoscerne le implicazioni. Dopotutto i nuovi dogmi della ricerca sociale, per cui tutto è leggibile tramite la lente delle dinamiche di oppressione sistemica, esonerano l’osservatore dalle sfumature; ed ecco come anche una piccola parte di una comunque minoritaria protesta, in cattiva fede e che conosce invece il significato di certe parole, può prendere il sopravvento, dirottando una legittima manifestazione verso il radicalismo e la glorificazione della violenza.
È lungo il catalogo di azioni da parte di chi protestava in aperta ostilità verso studenti ebrei o israeliani esterni o contrari alla protesta (il mito del bad jew usato sia da Donald Trump che dalla Deputata Democratica Ilhan Omar), in un contesto in cui “sionista” è diventato l’utilissimo sostituto retorico di “ebreo”. Celebrazioni di Hamas e di Hezbollah, intimidazioni, slogan che invocano la scomparsa di Israele, discorsi su «sionisti che non meritano di vivere». Scomparso ogni riferimento iniziale a un cessate il fuoco, le fazioni più estreme delle proteste di questi giorni parlano di Thawabit e linee rosse come se fossero una fazione palestinese al fronte, e non studenti occidentali in uno dei più visibili e costosi spazi di privilegio in America.
Di fronte a ciò, dopo che studenti e non avevano occupato una parte del cortile della Columbia, la presidente dell’Università, di ritorno da un’interrogazione congressuale simile a quelle famigerate che hanno portato alla rimozione di Liz Magil (University of Pennsylvania) e Claudine Gay (Harvard), ha chiamato la polizia. È difficile minimizzare il colossale errore di calcolo di Nemat Shafik. Volendo dimostrare di non aver preso alla leggera le denunce degli studenti ebrei di non sentirsi al sicuro nel campus e di fronte alle pressioni soprattutto dei Deputati Repubblicani (impegnati a mascherare il proprio diletto di fronte agli eventi), Shafik ha scelto la via più breve dello sgombero forzato, arrendendosi allo stesso tempo al clima di tensione invitando gli studenti a frequentare da remoto. Le proteste hanno quindi quasi immediatamente acquisito un significato ulteriore, diventando il simbolo di ribellione contro chi vuole zittire con la violenza tutta la protesta, non solo la sua parte più radicale e inaccettabile. Campeggi improvvisati e dimostrazioni si sono moltiplicati dappertutto, con finali molto meno drammatici dove la governance ha deciso per un approccio più attento e moderato. Alla Columbia intanto si continua ad occupare il cortile, insieme anche alla famigerata Hamilton Hall (luogo di tante storiche occupazioni), con la presidente che sospende ed espelle, e gli studenti (e non) che non intendono ritirarsi. Il guaio in cui si è cacciata la Columbia, la cui governance risulta incapace di garantire il diritto di protestare e allo stesso tempo quello di poter studiare e lavorare senza venire molestati, non è sottovalutabile.
In ballo non è solo il futuro di una protesta che non finirà una volta che le tende verranno, come spera Shafik, sostituite dal palco e dalle sedie della cerimonia di laurea del prossimo 15 maggio. In un contesto in cui ormai la comunità accademica ha rinunciato a dibattere e parlarsi, in ballo è il futuro dell’università come spazio di libero dibattito e ricerca per tutti.