Trappola in alto mare: il Trent Affair durante la Guerra civile americana
L'incidente diplomatico che mise alla prova i rapporti tra Stati Uniti e Regno Unito durante il conflitto tra Unionisti e Confederati, per cui segretamente parteggiava la Corona britannica.
Nel novembre del 1861 lo scontro fra l’Unione e la Confederazione si protraeva oramai da sette mesi, privi per l’amministrazione Lincoln di successi significativi. Anzi, l’andamento degli eventi sul campo aveva spazzato via, una dopo l’altra, le confortanti illusioni nutrite dal governo federale e molte delle politiche inizialmente perseguite.
Il bombardamento tra il 12 e il 13 aprile a Fort Sumter da parte delle forze confederate aveva ufficialmente iniziato il conflitto, con ciò sgretolando le speranze – nutrite in particolar modo dal Segretario di Stato William H. Seward – che negli Stati del Sud vi fosse ancora una maggioranza silenziosa di filo-unionisti; e che bastasse al governo centrale attendere, manovrando con cautela senza antagonizzare la pubblica opinione di quegli Stati, perché essa tornasse a prendere il sopravvento sulle teste calde della secessione.
Allo scoppio delle ostilità aveva quindi fatto seguito, il 15 aprile, il richiamo da parte di Lincoln di 75.000 volontari per una ferma di 90 giorni; ma in reazione alla prevista costituzione di una grande armata il cui scopo evidente era quello di sedare l’insurrezione, si era infine verificata la paventata secessione degli Stati centrali – ancora in bilico – di Virginia, Arkansas, North Carolina e Tennessee. L’analoga secessione del Missouri sarebbe stata sventata solo dal forte partito filo-unionista presente, mentre un deciso tentativo confederato di impadronirsi del Kentucky, dichiaratosi neutrale, avrebbe potuto dirsi fallito solo ai primi del 1862.
Infine, il 21 luglio, la prima avanzata tentata dalle forze federali era stata arrestata lungo le rive del Bull Run nei pressi dello snodo ferroviario di Manassas, distante sole trenta miglia da Washington, in Virginia. Sebbene lungi dal costituire uno scacco decisivo, le alte perdite patite da ambo i contendenti avevano definitivamente fugato l’illusione che gli Stati del Sud potessero essere ricondotti in seno all’Unione da un’invasione rapida e relativamente incruenta.
L’arma a doppio taglio del blocco navale
Quattro giorni dopo il proclama con cui si richiamava la milizia degli Stati settentrionali, Lincoln aveva tuttavia preso un’altra decisione, una destinata in breve a proiettare l’incipiente guerra civile sullo scenario diplomatico internazionale. Il 19 aprile egli aveva infatti dichiarato il blocco navale dei porti meridionali in reazione all’annuncio da parte del presidente confederato Jefferson Davis, il 17 precedente, dell’emergente rilascio delle prime lettere di marca: col qual provvedimento si dava per intesa la volontà, da parte dei confederati, di avvalersi sin da subito della guerra di corsa contro il traffico marittimo del nemico.
Il blocco navale che nei mesi successivi la marina federale avrebbe posto in essere con sempre maggior dispiegamento di forze e secondo obiettivi sempre più ambiziosi, nasceva pertanto come misura ad hoc: sollecitata al presidente dai gruppi mercantili ed armatoriali del nord, giustamente timorosi della perturbazione dei commerci da parte dei corsari sudisti e del relativo sensibile aumento dei premi assicurativi.
Al Sud, drammaticamente privo di mezzi, e di una tradizione navale tout court, non rimaneva altra strategia se non quella costituita dalla guerra al traffico per sfidare la schiacciante superiorità goduta dalla Marina federale. D’altro canto a quest’ultima si presentava una sfida di magnitudine senza precedenti: le coste della Confederazione si stendevano dalla baia di Chesapeake in Virginia al Rio Grande in Texas per oltre 3.500 miglia in linea d’aria; una stima all’ingrosso cui andavano aggiunge svariate centinaia di miglia laddove la linea di costa – ad esempio in corrispondenza delle due Caroline, od alla foce del Mississippi nel Golfo del Messico – si disgregava in decine di insenature, isole e isolotti separati da altrettanti canali, in un dedalo di vie d’acqua che costituiva il rifugio perfetto per i corsari ed i violatori di blocco confederati.
Le difficoltà legali di una simile impresa, poi, non erano inferiori a quelle geografiche e logistiche, tanto da perseguitare l’Unione quantomeno sino al 1863. Uno degli assi portanti della politica dell’amministrazione Lincoln era e rimase per tutto il corso della guerra quello di negare qualsivoglia legittimità al governo separatista costituitosi a Richmond sotto la guida del presidente provvisorio Davis. La Confederazione era ritenuta a Washington una mera finzione giuridica e da ciò conseguiva che l’Unione, una e indivisibile, fosse impegnata in null’altro che la repressione di un’insurrezione interna.
Il blocco navale era però interpretato dalla disciplina giuridica dell’epoca – ed è a tutt’ora riconosciuto dal moderno diritto internazionale – quale atto di guerra fra belligeranti, cioè solitamente fra Stati sovrani riconosciuti de iure dalla comunità internazionale. Ragion per cui la dichiarazione di blocco ai danni dei porti della Confederazione rischiava di essere intesa, soprattutto dagli altri attori internazionali, alla stregua di un suo implicito riconoscimento.
L’ambiguità della posizione assunta dal governo federale non avrebbe tardato ad essere sfruttata da coloro che proprio dal blocco navale erano danneggiati, vale a dire armatori e mercanti colpiti dai provvedimenti di sequestro pendente l’accusa di contrabbando. Argomentavano infatti questi ultimi che, insistendo il governo federale sull’assenza di uno stato di guerra – d’altronde confermato dal fatto che non vi fosse stata una formale dichiarazione di guerra da parte del Congresso – il blocco era illegale e di conseguenza lo erano anche le appropriazioni sanzionate dai competenti tribunali delle prede ai danni dei bastimenti catturati dalla marina unionista.
Nonostante il 16 agosto Lincoln dichiarasse essere gli Stati secessionisti in uno “stato di insurrezione”, col che si autorizzava il sequestro di ogni bene e mercanzia in entrata od in uscita dal loro territorio, presto i ricorsi iniziarono ad intasare i tribunali del nord e, attraverso i procedimenti d’appello, a rischiare di approdare in Corte Suprema. Eventualità, quest’ultima, quantomai incresciosa per il governo, dal momento che dei sei membri superstiti che componevano la corte quattro erano Democratici e provenienti da stati schiavisti, fra cui il Chief Justice Roger B. Taney, estensore della majority opinion nel celebre caso Dred Scott v. Sanford del 1857.
Un pronunciamento – affatto improbabile – della Corte Suprema contro la legalità del blocco navale sarebbe stato disastroso per la sopravvivenza non solo dell’amministrazione, ma dello stesso sforzo bellico; per cui Lincoln si mosse tempestivamente per scongiurare il pericolo. Nel 1862 egli occupò i tre seggi vacanti con nomine di sicura fede unionista e l’anno successivo, quando il caso approdò infine alla Corte Suprema, riuscì ad influenzarne decisivamente il voto mediante il primo caso di court packing della storia americana: incombente la minaccia (poi tradotta in atto con l’approvazione del Tenth Circuit Act) di veder portati a dieci i propri membri, nel Prize Cases i giudici votarono infine con un risicato 5-4 a favore della legalità del blocco.
La battaglia ingaggiata fra esecutivo e Corte Suprema non costituiva l’unico rilevante problema legale che minacciasse la sopravvivenza della strategia navale unionista. Nel 1856 la Dichiarazione di Parigi aveva infatti sentenziato che da allora in avanti ogni blocco navale sarebbe stato vincolante solo se reso effettivamente operante; in altri termini, le marine mercantili delle potenze neutrali non sarebbero state obbligate al rispetto di un blocco esistente soltanto sulla carta (il famoso paper blockade di cui spesso la stessa Gran Bretagna si era servita), proclamato senza che la potenza bloccante schierasse le forze necessarie a chiudere i porti avversari.
All’epoca la Dichiarazione non era stata ratificata dagli Stati Uniti: proibendo altresì, nel primo dei suoi quattro articoli, la guerra di corsa, questa era stata considerata incompatibile con gli interessi di una nazione la cui strategia navale era sempre stata informata dalla guerra al traffico. La cosiddetta guerre de course costituiva da sempre l’unica opzione per una marina in netta inferiorità numerica e in due conflitti contro il Regno Unito gli Stati Uniti vi si erano affidati stante l’impossibilità di sfidare direttamente l’egemonia della Royal Navy; ragione per cui essi contavano, in caso di necessità, di farvi nuovamente ampio ricorso.
Benché non vincolata dalle disposizioni della Dichiarazione, l’amministrazione Lincoln non poteva tuttavia ignorare che essa avrebbe con ogni probabilità orientato la condotta delle marine mercantili inglese e francese; e che queste non si sarebbero contentate di una semplice dichiarazione di intenti da parte di Washington per tenersi alla larga dai porti confederati.
L’unica possibilità per il governo federale di isolare economicamente e diplomaticamente gli Stati del Sud, pertanto, era quella di giungere a possedere una forza navale grande abbastanza da assolvere alle operazioni di blocco. Era un compito a prima vista quasi insormontabile, giacché allo scoppio delle ostilità la marina federale poteva contare su 90 unità: di queste solamente 42 erano in servizio attivo, risultando le rimanenti in riserva. E di quelle in servizio appena 3 erano schierate nelle acque nazionali, essendo le altre assegnate alle stazioni navali estere dalle coste dell’Africa occidentale al Giappone.
L’immenso lavoro di mobilitazione ed organizzazione che sin da subito ricadde sulle spalle del Segretario della Marina Gideon Welles e del Sottosegretario Gustavus Vasa Fox implicò pertanto non solo il richiamo dei bastimenti in servizio estero e la riattivazione di quelli in disarmo, ma anche l’avvio di un enorme programma di costruzioni e nuove acquisizioni. Soltanto nei primi nove mesi di guerra la marina unionista avrebbe immesso in servizio 76 nuove navi, ne avrebbe acquistate 136 e costruite 52; per dare un’idea della magnitudine e del successo del programma navale varato dall’Unione senza fornire le cifre scorporate anno per anno, basterà dire che al termine della guerra, quattro anni più tardi, la marina contava 671 unità in servizio attivo per un totale di 6.700 ufficiali e 51.500 marinai.
La United States Navy era giunta ad essere la seconda forza al mondo dopo la Royal Navy, finanziata da un budget salito dai 12 milioni di dollari del 1861 ai 123 milioni del 1865.
La strategia navale unionista
Quali gli obiettivi di una forza tanto imponente, dai giorni in cui il blocco era stato inteso come mera contromisura ai corsari confederati? Sarebbe troppo semplice legare, come spesso è stato fatto, la dichiarazione di blocco del 19 aprile al famoso Anaconda Plan che il generale Winfield Scott avrebbe iniziato a delineare un paio di settimane più tardi; piano invocante il soffocamento della secessione mediante la combinazione del blocco navale col forzamento del fiume Mississippi che, occupato in forze da Cairo nell’Illinois a New Orleans sul Golfo del Messico, avrebbe virtualmente isolato la Confederazione dal resto del mondo, costringendola alla resa.
Scott non sarebbe mai riuscito a far approvare il suo piano dal governo, complice la salute precaria che l’avrebbe costretto di lì a breve al ritiro e l’inclinazione di Lincoln, ancora nei primi mesi di guerra, a ricercare una soluzione più rapida alla crisi: una soluzione come quella costituita dalla proposta di McClellan di combinare l’offensiva unionista ad ovest con una marcia sulla capitale confederale di Richmond ad est.
La strategia navale unionista non sarebbe nata come un master plan completo di tutti i dettagli e inesorabilmente perseguito: si sarebbe andata precisando nel tempo, in considerazione delle sfide poste di volta in volta dalla Confederazione e dei mezzi a disposizione. E nel fissare gli obiettivi della marina un ruolo fondamentale sarebbe stato svolto dal Blockade Board, una commissione attiva fra il giugno ed il settembre del 1861 con compiti puramente consultivi.
Pure l’intuizione iniziale di Scott era destinata a gettare semi fertili, finendo per informare la strategia unionista nei confronti del Mississippi. Essa si sarebbe concretizzata in una serie di passaggi fondamentali per la vittoria finale dell’Unione: prima la conquista di Fort Henry e Fort Donelson nel febbraio del 1862, con cui i federali guadagnavano, attraverso il controllo del basso corso del Tennessee e del Cumberland, l’accesso al Mississippi poco a nord di Cairo; quindi la caduta, nel maggio dello stesso anno, della città di New Orleans, con la quale si conseguiva il possesso del capo opposto del fiume. Infine, nel luglio del 1863, giunse la cattura di Vicksburg, l’ultima e più importante piazza confederata posta a metà strada della linea di circa 1.000 miglia tracciata dal fiume fra i due capisaldi già in mano unionista. La Confederazione sarebbe stata allora isolata e spezzata in due tronconi, con quello trans-fluviale costituito da Arkansas, Louisiana e Texas che risultò permanentemente tagliato fuori dal resto.
Valutare il contributo offerto dal concomitante blocco al conseguimento di questo grande obiettivo strategico è a tutt’oggi fonte di acceso dibattito. Si tratta di una controversia in buona misura inscindibile dalla natura stessa dei blocchi navali, sostenuti da operazioni di routine ben poco spettacolari e destinati a dare frutti – ancorché spesso decisivi – soltanto dopo aver lungamente e silenziosamente eroso le risorse nemiche.
Quanto alla Marina unionista, da un lato numerosi autori hanno richiamato l’attenzione sulla perdurante permeabilità del blocco: sino alla fine del conflitto, per ogni violatore di blocco catturato dalle forze federali, due si rivelarono in grado di eludere con successo le maglie sempre alquanto larghe della sorveglianza. Tale statistica di massima, d’altro canto, non tiene conto del numero di armatori e commercianti che furono semplicemente dissuasi dal tentare la sorte, ritirandosi da un commercio la cui elevata rimuneratività (sino al 500% del capitale iniziale) era un buon indice degli altrettanto numerosi elementi di rischio.
Al contempo, è indubbio che il blocco costituì uno dei fattori decisivi nella progressiva disarticolazione dell’economia della Confederazione, strangolando le esportazioni di cotone – la sola pregiata moneta di scambio della bilancia commerciale sudista – e riducendo le importazioni di armi e munizioni da cui gli Stati del Sud dipendevano a causa di un insufficiente sviluppo industriale. Ciò a dispetto degli sforzi profusi da un amministratore di genio, quale era il capo del Bureau of Ordnance Josiah Gorgas, nel creare dal nulla un’industria degli armamenti. Non solo; sul lungo periodo il blocco iniziò ad incidere anche sulla disponibilità di generi di prima necessità, come evidenziato dalla decisione di convertire sempre più campi di cotone in coltivazioni ad uso alimentare.
Se al progressivo declino delle entrate garantite dal commercio si aggiunge infine l’indisponibilità da parte del governo di Richmond di ristrutturare il proprio sistema fiscale, preferendo seguitare a finanziare lo sforzo bellico stampando sempre maggiori quantità di carta moneta, ben si vede come il blocco unionista debba essere messo in relazione anche col fenomeno dell’iperinflazione che, a partire dal 1863, avrebbe preso ad ostacolare seriamente il prosieguo della guerra. Con tassi che sarebbero schizzati al 700 % nel Marzo del 1864 e, dopo un generale ribasso nel resto dell’anno, sarebbero addirittura esplosi nei primi mesi del 1865 sino a toccare il 5725 % in Aprile, v’è semmai da stupirsi che i confederati riuscissero ancora a schierare delle armate e a rifornirle.
Il ruolo del Regno Unito
A tale strategia di progressivo isolamento economico e diplomatico la Confederazione aveva poco da opporre che non fosse il tentativo di ottenere il riconoscimento da parte delle potenze europee di Regno Unito e Francia, nonché di provocarne – con special riferimento alla prima – un intervento nella guerra in corso. Tentativo che avrebbe portato anche a spettacolari errori di calcolo da parte confederata come quello, ispirato dai corifei del King Cotton, costituito dall’imposizione da parte di Richmond di un embargo sulle esportazioni di cotone nel corso dei primi mesi di guerra; dominava la soggiacente convinzione che l’industria tessile britannica, importando l’80% del cotone greggio dagli Stati del Sud, ne fosse così dipendente che un improvviso taglio delle esportazioni avrebbe costretto il Regno Unito a tutelare la propria industria riaprendo i collegamenti marittimi con la Confederazione, e ciò anche a costo di scendere in guerra contro l’Unione per levarne il blocco navale.
Sfuggiva all’amministrazione Davis che un attore globale come l’Impero britannico, pur risentendo negativamente dell’embargo confederato e poi del blocco unionista, avrebbe in breve rintracciato fonti di approvvigionamento alternative costituite dal cotone egiziano e specialmente indiano; tal che le balle di cotone del sud rimasero a marcire nei porti confederati senza alcun costrutto. Nei primi mesi di guerra, quando la morsa del blocco federale non si era ancora stretta ed avrebbero potuto essere esportate facilmente in cambio di valuta pesante e forniture militari, esse rimasero ferme a causa del maldestro tentativo da parte di Richmond di ricorrere ad una politica coercitiva; quando poi l’embargo si rivelò in tutto il suo autolesionismo, il blocco navale era stato ormai potenziato a sufficienza da rendere l’esportazione del cotone estremamente più difficoltosa e soggetta a pesanti perdite.
Nel complesso, il Regno Unito si dimostrò determinato a mantenere la propria neutralità nonostante le iniziative degli Stati del Sud e a dispetto del fatto che, il 14 maggio 1861, il governo Palmerston avesse riconosciuto alla Confederazione lo status di belligerante. Una decisione destinata a provocare grande irritazione nell’amministrazione Lincoln, ma che costituiva un atto obbligato – stante la disciplina regolante i blocchi navali – privo di apprezzabili conseguenze sul piano pratico.
Ben più rilevante fu la successiva dichiarazione del 1 giugno con la quale si ribadiva la neutralità e si faceva divieto ai bastimenti tanto unionisti quanto confederati di servirsi dei porti britannici per recarvi eventuali prede belliche. Come si è già accennato, in caso di cattura di un mercantile da parte di una nave corsara la procedura prevedeva che quest’ultimo imponesse un equipaggio di preda, il quale avrebbe poi condotto la nave catturata presso il porto più vicino: lì un competente tribunale delle prede avrebbe sentenziato circa la legalità della cattura. In assenza di corsari federali un simile provvedimento colpiva pertanto quelli confederati: e li danneggiava in particolar modo poiché, non potendo servirsi dei porti del Sud sottoposto a blocco, essi si appoggiavano soprattutto a quelli britannici nella conduzione della guerra di corsa ai danni del traffico unionista.
Sebbene inizialmente non apprezzata dal governo federale in tutte le sue implicazioni, la presa di posizione britannica avrebbe condotto nell’arco di pochi mesi alla virtuale estinzione della guerra di corsa condotta dai privati in possesso di regolari lettere di marca. L’iniziale scommessa di Davis era fallita e già a partire dal 1862 la lotta al traffico sarebbe stata portata avanti solo dalle poche unità regolarmente inquadrate nella Marina confederata che il Segretario Stephen R. Mallory fosse riuscito ad armare ed immettere in servizio a spese del governo.
In tutto ciò i rapporti anglo-unionisti non furono comunque esenti dal prodursi di tensioni cicliche, principalmente derivanti dall’entusiastica partecipazione di attori privati britannici al business delle forniture di armi alla Confederazione ed alle attività dei violatori di blocco.
La crisi diplomatica più grave fra le due potenze si sarebbe tuttavia verificata a seguito di un passo falso da parte del governo unionista a fronte dell’ennesima iniziativa diplomatica confederata in Europa. Già nel marzo del 1861, ancor prima che partisse il primo colpo della guerra civile, l’amministrazione Davis aveva preso la decisione di inviare una delegazione a Londra capeggiata dall’ex deputato dell’Alabama William L. Yancey: essa avrebbe dovuto ottenere l’ambito riconoscimento diplomatico di Londra in cambio dell’impegno da parte di Richmond all’instaurazione di un regime commerciale di libero scambio che avrebbe garantito all’industria britannica le preziose forniture di cotone.
Sfortunatamente Yancey, un aperto difensore delle virtù sociali e dei vantaggi economici della “peculiare istituzione” – e questo in un paese come il Regno Unito che sin dal 1834 era stato in prima linea nella lotta alla schiavitù – risultò una scelta fra le più infelici: non desta pertanto sorpresa che i contatti fra la delegazione confederata ed il Segretario agli Affari Esteri Lord Russell si fossero arenati dopo il secondo abboccamento. Yancey, assieme ad Ambrose D. Mann e Pierre A. Rost, si rivelarono impotenti nell’influenzare le posizioni del gabinetto Palmerston che sarebbero poi sfociate in una formale dichiarazione di neutralità: in Agosto la missione diplomatica poteva già dirsi fallita e Yancey rassegnò le proprie dimissioni, in attesa di un sostituto.
La scelta dell’amministrazione Davis, quanto ai nuovi inviati, poteva dirsi curiosa: che la prima nomina fosse ricaduta su James M. Mason, appassionato apologeta della schiavitù, estensore del testo della Fugitive Slave Law del 1850 – che tanta esecrazione aveva destato negli Stati del Nord – ed egli stesso proprietario di schiavi, denunciava una certa qual miopia da parte dell’establishment confederato nel selezionare un rappresentante diplomatico il cui profilo potesse risultare gradito a Londra.
Mary Boykin Chestnut, moglie dell’influente politico meridionale James Chestnut Jr. e il cui diario è a tutt’oggi fonte inesauribile di pettegolezzi e retroscena sulla classe politica del Sud, avrebbe annotato che nemmeno nella sua più sfrenata immaginazione sarebbe riuscita a figurarsi Mason nel ruolo di diplomatico; ma tale era la personalità destinata, secondo Richmond, a confrontarsi con Lord Russell, uno degli statisti liberali più influenti della sua generazione e fra gli artefici, un trentennio prima, del Great Reform Act.
Più accorta, per contro, appariva la nomina di John Slidell, il quale avrebbe dovuto servire come rappresentante a Parigi: anch’egli secessionista schierato su posizioni oltranziste e grande difensore della causa della schiavitù, Slidell si era quantomeno guadagnato la fama di scaltro manovratore politico all’epoca dell’abrogazione del Missouri Compromise che, nei desiderata dei Democratici del sud, avrebbe dovuto spalancare i territori dell’ovest alla diffusione della peculiare istituzione.
Col senno di poi è ragionevole affermare che la miglior linea di condotta sarebbe consistita nel permettere a Mason e Slidell di portare a termine indisturbati la loro missione: difficilmente avrebbero promosso la causa confederata ed anzi, quanto a Mason a Londra, è anche plausibile che egli sarebbe riuscito ad incrinare ulteriormente i rapporti col governo britannico.
Ma Mason e Slidell erano due personalità troppo note nel Nord – e troppo intensamente detestate per il loro ruolo di campioni del Sud schiavista e secessionista – perché il governo federale potesse accettare di lasciarle circolare tanto impunemente.
Così, quando a Washington si diffuse la notizia che il 12 ottobre il piroscafo con a bordo i due delegati era riuscito a eludere il blocco navale davanti a Charleston, la prima reazione di Gideon Welles fu quella di telegrafare al Flag Officer Samuel Francis DuPont, comandante del South Atlantic Blockading Squadron ed allora impegnato nei preparativi per il previsto assalto contro Port Royal, perché distaccasse dal suo comando una veloce unità incaricata di intercettare il vapore confederato.
Non poteva sapere il Segretario Welles che la sua iniziativa sarebbe caduta nel vuoto perché un altro ufficiale di marina si era già messo autonomamente sulle tracce di Mason e Slidell. Il capitano Charles Wilkes, con alle spalle già quarantatré anni di servizio, sembrava riassumere in sé tutte le contraddizioni di un’epoca: valente cartografo, già a capo del Depot of Charts and Instruments, la sua fama nella marina riposava sulla grande spedizione esplorativa da lui capeggiata fra il 1838 ed il 1842: al comando di sei unità e con a bordo un nutrito team scientifico Wilkes aveva completato la circumnavigazione del globo, portando inoltre a termine la mappatura di 1500 miglia di coste antartiche (impresa per la quale gli è a tutt’oggi dedicata la Terra di Wilkes).
L’uomo, però, aveva anche rivelato tutti i suoi limiti caratteriali: arrogante, impulsivo, indisciplinato coi superiori quanto tirannico e violento nei confronti dei subalterni, a dispetto dei suoi talenti scientifici e marinareschi si era guadagnato un odio pressoché universale. La spedizione approdata in patria quattro anni più tardi e con due navi e ventotto uomini di equipaggio in meno si trascinava dietro una lunga coda di rancori, che avrebbero portato Wilkes ad essere sottoposto a corte marziale. Le accuse andavano dall’aver comminato pene corporali inutilmente crudeli, all’aver costretto al riarruolamento quegli uomini la cui ferma fosse frattanto scaduta: e per costrizione si intende che Wilkes non era arretrato di fronte all’impiego né della frusta, né delle minacce di abbandonare i recalcitranti su di un’isola deserta.
Cavatosela con una reprimenda, la sua carriera si era però arenata in una serie di grigi incarichi di terraferma, con il bombardamento di Fort Sumter che l’aveva sorpreso a capo della Commissione Fari; ora, scoppiata la guerra, egli era ben deciso a sfruttare l’occasione per tornare sulla cresta dell’onda. Caratteristicamente, Wilkes ritenne che la strada migliore per portare ad effetto tale proposito fosse quella di trasgredire agli ordini ricevuti.
Assunto a Fernando Pó il comando della pirofregata ad elica USS San Jacinto, che aveva speso gli ultimi tre anni nelle acque dell’Africa occidentale impegnata in operazioni di polizia marittima, egli doveva fare rotta per Philadelphia ed ivi ricongiungersi alla squadra di DuPont che, come detto, era in procinto di lanciare l’operazione contro Port Royal. Wilkes non se ne diede per inteso e per un mese intero continuò ad incrociare al largo delle coste africane, sperando di mettere le mani su qualche corsaro confederato. Quindi, in mancanza di prede, decise di fare rotta per le Antille ove, durante uno scalo alle isole Cayman, venne a sapere della presenza in zona dell’imbarcazione confederata CSS Sumter, allora comandato dal famoso capitano Raphael Semmes.
Fu mentre tallonava il Sumter che, facendo nuovamente scalo a Cienfuegos sulla costa meridionale di Cuba, Wilkes venne a sapere della presenza di Mason e Slidell a L’Avana. Come avrebbe appreso di lì a poco nella capitale cubana, i due emissari confederati avevano dapprima fatto scalo a Nassau, nelle Bahamas; ma avendo perso la coincidenza col piroscafo che li avrebbe dovuti portare alle Antille Danesi e da lì in Inghilterra, essi si erano diretti a L’Avana in attesa del postale RMS Trent, il cui arrivo era previsto per tre settimane più tardi.
Wilkes concepì subito il proposito di catturare Mason e Slidell dopo che fossero salpati, e messoa parte il console generale americano a Cuba, Robert W. Shufeldt, ricevette da questi un inaspettato beneplacito nonostante la temerità del piano. L’RMS Trent non era semplicemente un bastimento neutrale: all’epoca le Royal Mail Ships erano gestite dall’Ammiragliato (dietro contratto con la Royal Mail Steam Packet Company) onde assicurare la consegna della corrispondenza per conto della Royal Mail, un dipartimento governativo. Per cui l’idea di Wilkes equivaleva, a tutti gli effetti, a portare un assalto in acque internazionali ad un bastimento che poteva considerarsi governativo: era inevitabile che ne derivasse un incidente diplomatico di prima grandezza.
Sordo a scrupoli di ordine legale, e dopo aver rifornito il San Jacinto, Wilkes si pose così in agguato nell’Old Bahama Channel che il postale avrebbe dovuto traversare facendo rotta per l’Inghilterra. A mezzogiorno del 9 novembre la vedetta del San Jacinto avvistò infine il Trent all’orizzonte e, serrate le distanze, Wilkes ordinò di sparare due colpi davanti alla prua per costringerlo a mettersi alla cappa; quindi, armata una lancia con una squadra d’abbordaggio al comando del primo tenente Fairfax, gli unionisti accostarono sottobordo e salirono sul ponte della nave nonostante le vive rimostranze del suo comandante, capitano James Moir.
Ordinato di fornire una lista dei passeggeri, Moir si rifiutò seccamente, ma proprio mentre Fairfax stava reiterando la richiesta, Slidell si fece avanti, dichiarando le proprie generalità presto imitato da Mason; in considerazione del suo acume è del tutto plausibile che Slidell si fosse già reso conto che il miglior modo per servire gli interessi confederati in quel frangente fosse farsi catturare dai federali, così innescando l’incidente diplomatico fra Washington e Londra. I due inviati del Sud dichiararono che non avrebbero abbandonato il Trent se non con la forza e, saldamente agguantati dai marinai di Fairfax, vennero caricati sulla lancia senza tuttavia far loro violenza; sarebbero stati seguiti dai rispettivi segretari James E. Macfarland and George Eustis e dal bagaglio personale.
Convinto che il suo superiore stesse facendo un grosso errore, Fairfax decise di limitarsi all’arresto di Mason e Slidell, pendente l’accusa di contrabbando: poiché il governo confederato non era legalmente riconosciuto, ogni comunicazione diplomatica scambiata con un governo straniero equivaleva a contrabbando, aveva opinato Wilkes nel pianificare l’operazione.
La documentazione incriminante che si sperava di trovare nel bagaglio degli inviati confederati avrebbe sostanziato l’accusa. Il punto è che nessun documento poté essere rintracciato fra gli effetti personali dei due, tanto da costringere in un secondo tempo Wilkes a difendere il proprio operato secondo l’ingegnosa nozione per cui Mason e Slidell avrebbero costituito una “personificazione del contrabbando” (embodiment of contraband): i dispacci diplomatici, quantunque fisicamente assenti, dovevano ben essere impressi nelle loro teste! Né Fairfax aveva proceduto alla perquisizione del Trent per assicurarsi della presenza di merce di contrabbando o – in ciò contravvenendo agli ordini del suo superiore – imposto un equipaggio di preda al postale perché lo conducesse verso il porto più vicino.
Scopo del primo tenente era quello di non ingigantire l’incidente diplomatico che già paventava, ma nel mancare di seguire le norme che regolavano la guerra di corsa gli unionisti si ponevano dalla parte del torto: il Trent avrebbe dovuto essere condotto in porto ed ivi la legittimità del sequestro giudicata da un competente tribunale delle prede, senza il cui pronunciamento l’azione di Wilkes era da considerarsi a tutti gli effetti illegale. Si vedrà come questa fatale omissione, tuttavia, si sarebbe rivelata provvidenziale nel corso delle serrate trattative diplomatiche che avrebbero fatto seguito all’incidente. Per il momento Wilkes si limitò ad avallare la negligente condotta del suo sottoposto, accettando la spiegazione che sarebbe stato controproducente sottoporre i passeggeri del Trent ad ulteriori disagi, e il San Jacinto fece rotta per Hampton Roads con i quattro prigionieri a bordo.
La notizia dell’exploit di Wilkes sarebbe arrivata a Washington solo il 15 novembre, suscitando nell’amministrazione Lincoln un entusiasmo superato soltanto, di lì a qualche giorno, dal tripudio che il colpo di mano avrebbe scatenato nella popolazione degli Stati del Nord.
Particolarmente raggiante era il Segretario di Stato: reazione affatto inaspettata se solo si consideri che Seward si era sempre fatto interprete di una politica aggressiva ed intransigente nei confronti del Regno Unito tanto da caldeggiare, all’epoca di Fort Sumter, l’idea di antagonizzare deliberatamente il governo britannico. L’obiettivo sarebbe stato scatenare una guerra che avrebbe auspicabilmente distolto l’attenzione della pubblica opinione dalla crisi in corso e ricompattato l’unità nazionale contro un nemico esterno. Si vedrà come, nell’arco di appena un mese, la posizione di Seward sarebbe andata incontro ad una spettacolare metamorfosi. Se in questa fase dell’incipiente crisi diplomatica Lincoln già nutrisse dubbi sull’operato di Wilkes non è dato sapere per certo.
Il ritegno dimostrato dal Presidente nell’esprimersi sul caso sin dai primi giorni, e a dispetto della generale esultanza, sembrerebbe comunque indicare che il suo fiuto politico gli facesse già presentire delle complicazioni; ma ancora in questa fase della vicenda l’unica voce fuori del coro risultò essere quella del Postmaster General Montgomery Blair, dichiaratosi convinto che il governo federale avrebbe finito per dover liberare Mason e Slidell e presentare le proprie scuse al governo britannico.
Non era ancora tempo per l’autocritica e d’altronde, fino a quando non fosse pervenuta la reazione ufficiale del governo britannico, ogni speculazione sarebbe stata oziosa. Mentre la stampa nazionale si abbandonava a celebrazioni sempre più sciovinistiche dell’impresa ed a toni sempre più bellicosi nei confronti degli inglesi, il San Jacinto fu dirottato a Boston ove Wilkes venne accolto da eroe ed i prigionieri confederati rinchiusi (con ogni comfort) in Fort Warren.
La notizia dell’abbordaggio del Trent sarebbe giunta a Londra soltanto dodici giorni dopo essere stata trasmessa a Washington: va notato che ancora in questa fase dei rapporti anglo-statunitensi tutte le comunicazioni erano affidate al trasporto navale e soggette ai tempi dilatati ed agli inconvenienti propri di tali collegamenti. Il primo cavo telegrafico fra le due sponte dell’Atlantico era stato posato nel 1858 ma, spezzatosi poco tempo dopo, non sarebbe stato sostituito che alla fine della guerra civile. Non che la lentezza nelle comunicazioni fosse necessariamente d’ostacolo all’attività diplomatica, anzi: a tal proposito è stato autorevolmente argomentato dallo storico Craig L. Symonds che proprio le difficoltà di comunicazione fra i due governi avrebbero giocato un ruolo importante nel contenimento della crisi, stemperando la tensione ed impedendo decisioni avventate sull’onda della concitazione del momento.
Ad esempio, è improbabile che se a Londra si avesse avuta contezza di quel che frattanto si diceva e scriveva a Washington anche da parte di influenti personaggi politici, la nota emersa dalla riunione del governo Palmerston del 29 novembre sarebbe stata vergata in termini tali da offrire all’amministrazione unionista una via d’uscita. Caso fortunato volle che tale documento venisse invece elaborato soltanto sulla base delle scarne notizie concernenti l’abbordaggio del Trent.
Né maggiori lumi Lord Russell aveva potuto ottenere dai contatti con Charles Francis Adams: ministro plenipotenziario unionista a Londra, egli non solo aveva appreso dell’incidente del Trent dai giornali, ma anche nel prosieguo della crisi sarebbe stato tenuto in disparte da Seward. Ad ogni modo questo uomo di solido buon senso, figlio e nipote di presidenti (rispettivamente John Quincy Adams e John Adams), avrebbe prestato il suo prezioso contributo ignorando le poche istruzioni di cui era in possesso: come osservato dal figlio Henry, che per Adams fungeva da segretario di legazione, il dispaccio consegnatogli da Seward in occasione della nomina ad ambasciatore nel Regno Unito era di tale tenore che “se egli lo avesse seguito alla lettera avrebbe ottenuto la guerra in cinque minuti”. Ed in effetti il documento vergato da Seward era di tono deliberatamente – e, si potrebbe aggiungere, sconsideratamente – ostile, giacché vincolava Adams a rompere seduta stante le relazioni diplomatiche nel caso in cui il governo britannico avesse riconosciuto la Confederazione od avesse interferito in qualsivoglia modo nel conflitto in corso.
Benché le autorità britanniche fossero impossibilitate ad appurare, ancora in quella fase, se il capitano Wilkes avesse agito di propria iniziativa o su mandato governativo, nella riunione del 29 il gabinetto Palmerston giunse alla conclusione che tale punto era da considerarsi irrilevante: il non aver sottoposto la propria decisione alla ratifica di un competente tribunale delle prede rendeva la condotta di Wilkes illegale, per cui i ministri convenuti deliberarono di inviare un ultimatum all’Unione.
Lord Russell iniziò a redigere le istruzioni che egli avrebbe impartito a Lord Lyons, ministro plenipotenziario a Washington; infine, l’indomani, i ministri si riunirono nuovamente per approvare tali istruzioni in prima stesura. Stando al documento, Lyons avrebbe richiesto la liberazione degli inviati confederati e pubbliche scuse: se l’amministrazione Lincoln non avesse ottemperato ad ambo le richieste entro un termine di sette giorni, l’ambasciatore avrebbe dovuto rompere le relazioni diplomatiche e sarebbe stata la guerra fra i due paesi.
Questa bozza emersa dal vertice ministeriale venne quindi trasmessa da Palmerston alla Regina Vittoria e sottoposta all’attenzione del principe Alberto per eventuali «suggerimenti». Benché già intensamente sofferente per la malattia che lo avrebbe di lì a poco portato alla morte, il Principe – un uomo di sinceri sentimenti liberali – si accinse ad apportare delle modifiche che dovettero probabilmente rivelarsi cruciali. Senso complessivo e tempistiche dell’ultimatum non cambiavano, ma per iniziativa del principe il testo venne riformulato inserendo passaggi del seguente tenore: ad esempio che «il governo di Sua Maestà, avendo bene in mente le relazioni amichevoli che da lungo tempo sono esistite fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, è incline a credere che l’ufficiale di marina degli Stati Uniti che ha commesso tale aggressione non stesse agendo in ottemperanza a qualsivoglia autorizzazione del suo governo; o che, quand’anche si fosse ritenuto in tal senso autorizzato, egli avrebbe ampiamente frainteso le istruzioni ricevute […]».
Col professare di credere che in nessun caso lo sconsiderato abbordaggio del Trent avesse potuto originarsi da un ordine del governo, od essere stato da questo approvato, Alberto offriva all’amministrazione unionista un’onorevole via d’uscita che le avrebbe permesso di sconfessare Wilkes senza per questo perdere la faccia. Sarebbe stato l’ultimo servigio offerto dal principe al suo paese adottivo: il 14 Dicembre, quattro giorni prima che Lord Lyons ricevesse a Washington il dispaccio così emendato, egli era sceso nella tomba.
Il documento britannico trovò un Paese il cui umore era già marcatamente mutato rispetto allo stato di bellicosa euforia delle settimane precedenti; e con esso un’amministrazione molto meno sicura della giustezza delle proprie posizioni e nient’affatto determinata a rischiare lo scontro con gli inglesi. A dispetto dei pareri favorevoli forniti da numerosi esperti legali, fra cui lo stesso procuratore generale Edward Bates, si era ad esempio fatta strada la consapevolezza che Wilkes non avesse agito in conformità con le Prize Laws e che la cattura di Mason e Slidell fosse stata pertanto illegale.
Il caso del Trent iniziava ad essere ritenuto a tal punto compromettente che il 2 dicembre, nell’atteso messaggio annuale al Congresso, Lincoln preferì non fare il minimo accenno alla vicenda, a dispetto delle grandi attese da parte dei circoli politici della capitale, ed è comprensibile, alla luce delle notizie che iniziavano a filtrare ufficiosamente dal Regno Unito, che il governo intendesse avere le mani libere nel caso fosse stato costretto ad una vigorosa retromarcia.
Grazie ai buoni uffici del senatore Charles Sumner, allora a capo della Commissione per le Relazioni Internazionali del Senato, Lincoln e Seward iniziarono a prendere coscienza della tempesta politica che l’incidente del Trent aveva provocato a Londra. Sumner, infatti, manteneva una fitta corrispondenza privata con politici britannici del calibro di Cobden, Bright e Gladstone, ricevendone informazioni di prima mano: in questo caso sull’oltraggio generale suscitato dalla notizia dell’incidente e sulla retorica guerrafondaia brandita dalla politica e dalla stampa britanniche.
Che nel Regno Unito spirassero venti di guerra fu ufficialmente confermato allorquando, alla metà del mese, Seward venne raggiunto da una missiva dell’ambasciatore Adams, con la quale si informava che nel paese erano già in atto i primi preparativi bellici: il gabinetto Palmerston, infatti, aveva approvato l’invio di 8.000 uomini a rafforzare la guarnigione di stanza in Canada ancor prima di elaborare le istruzioni definitive per Lord Lyons.
Il Segretario di Stato realizzò così che la guerra con il Regno Unito non era stata una remota eventualità; e a dispetto della retorica ostile cui sino ad allora egli stesso aveva accondisceso, iniziò ad ammorbidire il governo e la stampa onde scongiurare un simile pericolo. Nulla, tuttavia, delle notizie sino ad allora circolanti a Washington, avrebbe potuto prepararlo alla durezza dell’ultimatum di cui Lord Lyons si sarebbe fatto latore il giorno 19. Va dato credito all’ambasciatore britannico di avere, in quell’occasione, prestato l’ultimo sensibile contributo all’allentamento della tensione montante: consapevole infatti che il termine dei sette giorni sarebbe scattato al momento stesso della consegna ufficiale della nota, egli chiese a Seward un abboccamento privato per edurlo sulla natura delle richieste, nel caso in cui l’amministrazione unionista avesse avuto bisogno di più tempo per valutarle con attenzione.
A Lyons era evidente che l’inflessibilità della nota avrebbe imposto un estenuante lavoro di mediazione politica perché si potesse approdare ad una soluzione negoziata: il calcolo era esatto, dal momento che nei due giorni successivi al colloquio con Seward quest’ultimo si dimostrò incapace di ispirare a Lincoln tutta l’urgenza richiesta dalla situazione. Il Presidente era infatti convinto dell’opportunità di sottoporre la questione ad un arbitrato internazionale, preferibilmente affidato alla Francia o fors’anche alla Prussia: una soluzione di compromesso che, anticipava Seward, sarebbe stata del tutto irricevibile da parte britannica.
Non che il Presidente fosse inconsapevole della posta in gioco ma, a fronte di sette mesi di guerra avari di buone notizie con cui motivare il paese, gli ripugnava l’idea di essere costretto al voltafaccia proprio su di una questione che tanto aveva galvanizzato la pubblica opinione del Nord.
Quando – il 21 – Lyons si presentò nuovamente, stavolta per consegnare la nota in forma ufficiale, Seward chiese ed ottenne altri due giorni di dilazione, impiegati per lavorare freneticamente su di una risposta che era sua intenzione esporre alla riunione di gabinetto in concomitanza con la lettura dell’ultimatum britannico; e quando quest’ultimo venne infine letto da Seward ai membri dell’amministrazione, riuniti per il giorno di Natale, lo shock fu palpabile. A tal punto che lo stesso Bates, pur avendo sino ad allora garantito sulla legittimità della condotta di Wilkes, prese a sostenere concitatamente che l’evenienza concreta di un conflitto con il Regno Unito prescindeva oramai dal merito legale. Essa si sarebbe dovuta evitare a qualsiasi costo perché avrebbe segnato la rovina dei traffici dell’Unione, la fine del blocco navale e, presumibilmente, anche il collasso dello sforzo bellico contro il Sud.
In ultima analisi si andò velocemente imponendo, fra i ministri, la consapevolezza che l’Unione potesse sostenere solamente “una guerra alla volta” e che quella contro gli inglesi si sarebbe dovuta evitare – sia pure al prezzo di un’eventuale umiliazione – fin tanto che fosse durata l’altra contro la Confederazione. Lincoln chiese a Seward di compilare un ultimo memorandum in cui esporre chiaramente le ragioni per cui Mason e Slidell avrebbero dovuto essere riconsegnati ma, a dispetto di questa esibita resistenza, l’inflessibilità dell’ultimatum britannico aveva già fatto naufragare la sua determinazione a sostenere l’ipotesi dell’arbitrato.
Il 26 dicembre Seward prese nuovamente la parola di fronte ai membri del gabinetto: la decisione di Wilkes di non catturare il Trent e sottomettersi al giudizio di un tribunale delle prede – egli sentenziò – andava contro il diritto internazionale e su questa base soltanto il governo era in dovere di sconfessare le sue azioni in quanto illegali. Il Presidente e gli altri ministri concordarono e il rilascio degli inviati confederati venne annunciato a Lord Lyons l’indomani. Tale era il minimo spazio di manovra in cui si era dibattuto il governo sino ad uscire dalla crisi e ben si vede che la decisione presa allora dal tenente Fairfax era stata, come già sottolineato, provvidenziale: essa aveva sancito l’illegalità della cattura degli inviati confederati e, nel far ciò, aveva offerto all’amministrazione Lincoln un appiglio legale per prenderne le distanze.
Se, quel giorno, Wilkes e Fairfax avessero imposto al Trent un equipaggio di preda e presentato la sua cattura davanti ad una corte competente, essa sarebbe stata dichiarata senz’altro conforme alle Prize Laws; e il governo dell’Unione non avrebbe potuto a quel punto appellarsi ad alcuna tecnicalità dietro cui celare decorosamente un cedimento di fronte alle richieste britanniche. Che anche l’eccitazione della pubblica opinione fosse andata frattanto scemando, portata a fondo dalle gravi preoccupazioni dei circoli armatoriali e finanziari di fronte alla prospettiva dello strangolamento dei traffici ad opera della Royal Navy (nella sola giornata del 16 dicembre 1861 i buoni del tesoro avevano perso il 2,5% sulla piazza di New York), rese a Lincoln il voltafaccia meno gravoso e molto meno dannoso in termini di popolarità di quanto avesse inizialmente paventato. Anzi, all’annuncio che Mason e Slidell sarebbero stati liberati la stampa diede eco ad un generale sospiro di sollievo.
Poteva dirsi così conclusa la più grave crisi internazionale che Lincoln avesse dovuto affrontare e sebbene i rapporti anglo-unionisti registrassero altre flessioni negli anni successivi, mai tornarono a sfiorare il punto di rottura come era accaduto nel caso dell’incidente del Trent. Ma cosa rimaneva di quella crisi, oltre alla dimostrazione dell’abilità di personaggi come Seward nell’adeguarsi con successo alle mutate condizioni politiche, sia pure al costo di abdicare alle proprie personali convinzioni? Per certo il governo unionista giunse alla conclusione che il perdurante isolamento economico e politico della Confederazione costituiva il suo obiettivo supremo, in nome del quale era sensato ed anzi necessario operare qualche concessione alle potenze europee; specialmente a quelle maggiormente danneggiate dal blocco navale.
Negli anni successivi, in nome di questo rinnovato realismo politico, Lincoln non avrebbe lesinato adeguate compensazioni a singoli armatori colpiti dai provvedimenti federali. Quanto a Mason e Slidell, essi vennero imbarcati in tutta fretta sull’HMS Rinaldo, per giungere infine in Gran Bretagna l’8 gennaio.
Pressoché ignorati dall’establishment politico britannico e presto dimenticati, come era prevedibile la loro azione non avrebbe minimamente spostato l’ago della bilancia in favore della Confederazione. Anzi, qualche settimana più tardi il governo britannico avrebbe infine riconosciuto il blocco navale unionista come effettivamente operante e pertanto vincolante.
Come presumibilmente intuito da Slidell, la loro migliore chance di servire la Confederazione era stata rappresentata dall’incidente diplomatico fra Unione e Regno Unito: composta la crisi, non vi era molto altro che potessero fare.