Project Azorian
Genesi e fallimento della più audace clandestine operation della guerra fredda, condotta dalla CIA e dagli Stati Uniti di Richard Nixon.
Nel primo quindicennio della Guerra Fredda uno dei dilemmi più rilevanti della deterrenza nucleare fra le due superpotenze era rappresentato dalla vulnerabilità dei missili balistici intercontinentali (ICBM), cui era affidato, assieme ai bombardieri strategici, il “delicato equilibrio del terrore”.
I silos di lancio costituivano invitanti bersagli statici e, benché questi fossero sotterranei, i massicci cappelli corazzati in superficie ne facevano degli obiettivi evidenti: talmente vistosi che negli Stati Uniti essi erano sparpagliati nelle campagne spopolate di stati come l’Arkansas, il Kansas e l’Arizona, di modo da allontanare il più possibile dai maggiori centri abitati il bersaglio designato di un numero ragguardevole di testate sovietiche. Né vi era la certezza, da parte di ambo i contendenti, che i silos avrebbero potuto resistere alle sollecitazioni estreme di un’esplosione nucleare: negli anni Sessanta i silos per i missili Titan II erano protetti da pareti di cemento armato spesse 8 piedi (2,4 m) e isolati dalla superficie da porte di acciaio del peso di 3 ton.
Di più, ciascun silo era isolato dal substrato roccioso circostante mediante enormi molle pensate per assorbire le onde sismiche generate da un’esplosione; pure tutti questi accorgimenti, la cui efficacia non venne mai messa alla prova, difficilmente avrebbero potuto garantire la sopravvivenza dei missili nel caso di un colpo diretto alle installazioni.
Che un first strike, ovvero un massiccio attacco nucleare preventivo da parte di uno dei due contendenti, potesse effettivamente distruggere le basi missilistiche dell’avversario pregiudicandone la capacità di effettuare una rappresaglia, costituiva l’incubo degli strateghi nucleari tanto a Washington che a Mosca.
Le soluzioni avanzate per risolvere un simile dilemma, salvaguardando le capacità di retaliatory strike e con esse la logica della deterrenza, furono molteplici. I sovietici, ad esempio, a partire dall’RT-20P (il cui primo test di lancio risale al 1967), iniziarono a sperimentare con gli ICBM montati su lanciatori mobili che ne permettessero lo spostamento lungo gli assi viari e quindi l’occultamento nelle vaste distese selvagge dell’Unione Sovietica: i massicci supporti a 14 ruote dell’RT-2PM Topol – il sistema mobile di maggior successo mai messo a punto dai sovietici – iniziarono a fare la propria comparsa alla Parata della vittoria sulla Piazza Rossa a partire dal 1985. Si trattava tuttavia di massicci e lenti lanciatori singoli cui non potevano essere affidate le sorti dell’intero arsenale nucleare sovietico.
Affetti da analoghe limitazioni furono quei missili, come l’RT-23, che seguendo la medesima filosofia d’impiego, furono montati su speciali vagoni ferroviari. Già a partire dagli anni Cinquanta era evidente che nessun mezzo terrestre avrebbe potuto garantire la mobilità e la sicurezza di un numero sufficiente di vettori, ma che le medesime condizioni avrebbero potuto essere soddisfatte dai mezzi navali. Fra questi, il sottomarino costituiva la piattaforma di gran lunga più promettente.
A patto di risolvere le complesse problematiche tecniche legate all’installazione di pozzi a tenuta stagna e alla possibilità di effettuare il lancio dei missili in immersione, così evitando al battello di emergere ed esporsi all’offesa nemica, il sottomarino prometteva di divenire il mezzo di dispiegamento definitivo degli arsenali nucleari di ambo i contendenti: esso avrebbe potuto avvicinarsi non rilevato alle coste nemiche e lanciare la propria salva di missili talmente a ridosso degli obiettivi designati da rendere impossibile qualsiasi contromisura.
Il concetto, in realtà, non era inedito e una sua abbozzata formulazione risaliva agli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, essendo pressoché coevo all’immissione in servizio del primo missile balistico operativo della storia: l’A-4 tedesco, meglio noto come V-2. In un’anticipazione dei dilemmi che avrebbero attanagliato gli strateghi della Guerra Fredda, a seguito dello sbarco in Normandia i tedeschi si trovarono a dover fare i conti con la progressiva perdita delle principali basi di lancio delle V-2, sia che queste fossero conquistate dall’avanzata delle truppe alleate o smantellate dai pesanti bombardamenti aerei.
La messa a punto da parte tedesca di rimorchi ruotati (Meillerwagen) per la movimentazione su strada dei missili sino a basi di lancio improvvisate non avrebbe mai interamente risolto il problema: la lentezza durante gli spostamenti e la vulnerabilità di armi lunghe 14 m e pesanti 12 ton risultò subito evidente. Da qui l’idea del centro di ricerca di Peenemünde di studiarne il lancio tramite gli U-Boot. La soluzione escogitata appare agli occhi degli storici assai stravagante e in linea con quel vago esotismo che connota la rappresentazione della tecnologia nazista presso tanta cultura pop: sotto il nome di Prüfstand XII l’ingegnere Klaus Riedel studiò la costruzione di contenitori cilindrici da 500 ton, lunghi 36 m e larghi 6 m, che i sommergibili avrebbero dovuto prendere al traino in serie di tre. Ciascuno dei contenitori avrebbe dovuto fungere da silo di lancio per una V-2 ed essere equipaggiato con delle casse di zavorra: esse avrebbero permesso di mantenerne l’assetto orizzontale durante gli spostamenti in immersione e, in emersione, di portare i silos in posizione verticale al momento del lancio.
Sebbene un prototipo del Prüfstand XII venisse testato con successo lungo la costa dell’isola di Usedom, la discutibile funzionalità del sistema non venne mai messa alla prova in condizioni operative, trovandosi i primi tre silos ancora in costruzione al momento dell’evacuazione di Peenemünde nel febbraio del 1945; ancor più dubbia è la possibilità che simili congegni sopportassero le vicissitudini di una traversata atlantica, permettendo ai tedeschi di giungere a distanza di tiro delle coste statunitensi. Ciò che conta, tuttavia, è che i tedeschi avevano gettato le basi degli sviluppi futuri, soprattutto perché dalle V-2 requisite dai vincitori sarebbe direttamente derivata la prima generazione di missili balistici tanto statunitensi quantoche sovietici.
L’Unione Sovietica si sarebbe ben presto rivelata all’avanguardia nello sviluppo dei missili balistici e delle relative versioni navali. Nel 1956 nasceva il missile R-11, sviluppato dall’ufficio progetti OKB-1 a guida di Sergej Korolëv, padre del vettore R-7 che l’anno successivo avrebbe portato in orbita lo Sputnik 1. L’arma rispondeva ai requisiti dettati dall’Armata Rossa per un missile balistico tattico dalle prestazioni analoghe alla V-2, ma di dimensioni ridotte. Già nel biennio 1953-54, tuttavia, Korolëv aveva proposto una versione imbarcata del missile, propulsa da una miscela di kerosene e acido nitrico in luogo di quella a base di alcol e ossigeno liquido che alimentava l’R-11; nel 1959 ne sarebbe infine derivato l’R-11FM, il primo SLBM (Submarine Launched Ballistic Missile) della storia, imbarcato in numero di due per battello sui sottomarini Progetto AV611 (Zulu V), a loro volta influenzati nelle loro linee generali dagli U-Boot tedeschi Type XXI.
In questa prima classe di unità, così come nelle due successive, i pozzi per i missili erano allocati a centronave, occupando verticalmente lo spazio compreso fra la lunga vela dorsale e la chiglia. Benché si trattasse di sottomarini a classica propulsione diesel-elettrica, equipaggiati con armi rudimentali dalla gittata di appena 150 km, con essi nasceva il moderno sottomarino lanciamissili balistici e la strategia nucleare della Guerra Fredda compiva un cruciale balzo in avanti: nasceva così quella “triade nucleare” (ICBM, SLBM, bombardieri strategici) perpetuatasi sino ai nostri giorni.
Nell’arco dei successivi quattro anni sarebbero stati sviluppati in rapida successione l’R-13 imbarcato sui sottomarini Progetto 629 (Golf I) e l’R-21 installato su quelli della serie Progetto 629A (Golf II): sebbene si trattasse ancora di battelli diesel-elettrici, con l’R-21 i sovietici disponevano infine di potenti vettori in grado di lanciare una testata termonucleare da 1 megaton a 1400 km di distanza. L’URSS avrebbe costruito complessivamente 22 unità della classe Golf I e di queste 14 sarebbero state convertite in Golf II: con esse i sovietici inauguravano la prassi delle crociere offensive al largo delle coste statunitensi che sarebbe durata sino alla fine della Guerra Fredda. Uno dei sottomarini impegnati in questi pattugliamenti era il K-129.
Entrato in servizio nel 1959 e riallestito nel 1964 come Golf II, il K-129 era un battello in forza alla Flotta del Pacifico e di stanza presso il complesso di Rybachiy in Kamčatka, base di quasi 40 sottomarini. Nella notte fra il 24 e il 25 febbraio 1968 l’unità mollò gli ormeggi al comando del Capitano di Prima Classe Vladimir Kobzar – considerato uno dei più esperti sommergibilisti della flotta – per una crociera di 70 giorni nel Pacifico settentrionale che avrebbe dovuto portarla a stazionare 1.000 miglia nautiche a nord ovestnordovest delle isole Hawaii: a bordo del K-129, oltre ai tre missili balistici R-21 puntati su altrettanti obiettivi situati sull’isola di Oahu, erano stati imbarcati anche due siluri Type 53-58 da 533 mm armati con testate nucleari.
Formavano l’equipaggio 14 ufficiali, 3 sottufficiali e 81 marinai, comprese 10 reclute alla loro prima crociera addestrativa. Il sottomarino trasmise un segnale radio il 26 febbraio, come da programma, e avrebbe dovuto mettersi nuovamente in contatto col comando di Petropavlovsk alla mezzanotte fra il 7 e l’8 marzo, ma su di esso scese il silenzio. Nelle settimane successive i sovietici avrebbero condotto frenetiche attività di ricerca che avrebbero finito per coinvolgere fino a 36 navi fra unità militari e civili di supporto, oltre a 286 missioni di volo da parte dei ricognitori navali Tupolev Tu-16R e Tu-95RT di base a Yelizovo (Petropavlovsk) e Burevestnik (Isole Curili).
Operazioni su così ampia scala avrebbero sortito l’effetto di mettere in allarme le unità di picchetto statunitensi che monitoravano le attività della Flotta del Pacifico, suggerendo allo U.S. Pacific Command che i sovietici erano incorsi con tutta evidenza nella perdita di un battello. Il sottomarino USS Barb (SSN-596) al comando di Bernard M. Kauderer, appostato al largo di Vladivostok, intercettò in quell’occasione cinque sottomarini che, preso velocemente il largo, scandagliavano i fondali con i sonar attivi procedendo ad immersioni periodiche; ogni qual volta si portavano nuovamente a quota periscopica, questi seguitavano a trasmettere in chiaro nel tentativo di stabilire un contatto radio col K-129.
Gli sforzi sovietici si rivelarono tuttavia vani e ancora oggi il fato del sottomarino riposa su di un certo numero di congetture: la documentazione declassificata per la prima volta dalla CIA nel 2010 a seguito di un FOIA (Freedom of Information Act) Request presentato dal National Security Archive non si dilunga sulle cause della sua perdita, dettagliando piuttosto l’audace missione di recupero pianificata dagli statunitensi una volta individuato il relitto. Tali informazioni possono però essere integrate con quelle raccolte da Norman Polmar e Michael White sondando i veterani del programma, lanciato nel 1969 sotto il nome di Project Azorian.
Gli statunitensi avevano effettivamente captato qualcosa, due tracce acustiche compatibili sia con un’esplosione che con un’implosione. Queste, tuttavia, non erano state raccolte per tramite della rete SOSUS (Sound Surveillance System) come frequentemente affermato da chi si è occupato del caso: testata per la prima volta nel 1952 al largo delle Bahamas e dimostratasi tanto efficace da essere estesa alla East Coast statunitense nel 1954 e quindi alla West Coast a partire dal 1958, questa rete di idrofoni subacquei era tarata per captare tracce acustiche prolungate come quelle di un’elica in cavitazione o dei motori di un sottomarino che procedesse a velocità di crociera a quota periscopica.
I suoni erano stati invece captati a nordest delle Hawaii dalla nave posacavi Albert J. Myers (T-ARC 6), durante delle prospezioni acustiche proprio in previsione della posa di una nuova linea di idrofoni per il SOSUS: l’idrofono della nave, calato a 4.000 piedi (1.219 m) di profondità aveva registrato due «major acoustic events», il primo entro un secondo dalla mezzanotte dell’11 marzo e il secondo 6 minuti dopo.
I rilevamenti della Myers sarebbero stati confermati dalla rete di idrofoni gestita dall’AFTAC (U.S. Air Force Technical Applications Center) e preposta al monitoraggio dei test nucleari. Il tracciato acustico venne quindi messo in mano al dr. John Craven – capo del progetto DSSP (Deep Submergence Systems Project) per lo sviluppo di capacità di soccorso e recupero ad elevate profondità – coadiuvato dal capitano della U.S. Navy James Bradley, già sommergibilista e assistente all’Office of Naval Intelligence; questi avrebbero a loro volta interpellato il capitano Joseph P. Kelly, già ingegnere elettrico per la Westinghouse Corporation prima dell’arruolamento in Marina e padre del sistema SOSUS, per una consulenza sulla lettura del tracciato.
Il confronto fra le interpretazioni statunitensi e le congetture sulle cause della perdita del K-129 avanzate dal comando sovietico riveste un certo interesse, in mancanza di prove cogenti. I funzionari dell’intelligence statunitense giunsero alla conclusione (erronea) che gli eventi acustici fossero da intendersi come due implosioni:
la prima, registratasi alla profondità di 1.000 piedi (304 m), doveva aver interessato lo scafo una volta superata la profondità di collasso del Golf II;
la seconda doveva invece ricondursi all’implosione delle componenti aggiuntive una volta superata la quota di 12.000 piedi (3.657 m) di profondità.
Questa interpretazione coincideva sostanzialmente col primo scenario evocato dagli investigatori sovietici, per cui il battello sarebbe incappato in strati d’acqua meno densi perché meno salini o più caldi e, avendo subito per questo una spontanea perdita di galleggiabilità, sarebbe affondato in modo incontrollato sino alla profondità di collasso. Come anticipato, tuttavia, questa lettura si sarebbe rivelata erronea: il relitto del K-129 sarebbe stato ritrovato sostanzialmente integro, prova del fatto che il battello era andato incontro ad un repentino allagamento che, annullando la differenza di pressione, aveva prevenuto l’implosione dello scafo una volta superati i 300 m. Cosa avesse provocato questo allagamento, tuttavia, non è mai stato documentato con certezza: il dettagliato resoconto sul Project Azorian, pubblicato nel 1985 negli Studies in Intelligence della CIA – e destinato a uso interno da parte dell’Agenzia sino alla sua declassificazione nel 2010 – rubrica ancora la perdita del battello a «cause unknown».
Resta la possibilità che il primo evento acustico captato dagli statunitensi fosse da ricondursi a un’esplosione, non è chiaro se verificatasi nel locale delle batterie elettriche o per una perdita di propellente a carico di uno dei missili balistici. Che due dei tre R-21 imbarcati dal sottomarino venissero ritrovati malamente danneggiati sembra suggerire la seconda ipotesi; lo squarcio nello scafo a poppavia della vela parrebbe invece indicare la prima. Il comando della 29. Divisione Missili Balistici, in cui il K-129 era inquadrato, avrebbe sempre respinto l’ipotesi di un incidente innescato dai missili balistici, continuando piuttosto a propendere per l’ipotesi di un guasto a carico delle batterie.
Il sito dell’incidente, per contro, venne localizzato dagli statunitensi alle coordinate 40° 06’ N, 179° 57’ E con un margine di errore di sole due miglia nautiche, restringendo significativamente il campo per eventuali ricerche: l’ostacolo principale rimaneva il fatto che l’oceano raggiungesse in quell’area profondità superiori ai 5000 m. Il compito di scovare il relitto del K-129 sarebbe ricaduto sull’USS Halibut (SSN-587) del comandante Clarence Edward Moore: primo battello realizzato specificamente per il lancio di missili cruise nel quadro del programma Regulus, l’Halibut era stato completato dotandolo di un ampio hangar prodiero in cui ricoverare gli ingombranti vettori sviluppati dalle V-1 tedesche.
Cancellato quindi il programma Regulus, esso era stato convertito a sottomarino per operazioni speciali: il suo compito sarebbe stato quello di individuare e raccogliere a grande profondità i rottami dei test missilistici sovietici, alla ricerca di qualcosa di interessante. A tal fine l’hangar prodiero era stato ristrutturato e trasformato in una sorta di centro di comando a tre piani, ospitante una camera oscura e un ingombrante calcolatore Sperry Univac 1224 (e non 1124, come indicato nel libro Blind’s Man Bluff di Sontag e Drew); completavano l’equipaggiamento due ROV (Remotely Operated Vehicle) filoguidati ciascuno del peso di 2 ton, dotati di radar, sonar e fotocamere.
Salpato da Pearl Harbor il 15 luglio, l’Halibut avrebbe scandagliato il fondale oceanico per più di un mese, sino ad individuare il relitto il 20 agosto; quanto rimaneva del K-129 sarebbe stato accuratamente ispezionato per le successive tre settimane, scattando ben 22.000 fotografie.
Fatta eccezione per una dozzina di immagini, comparse in un documentario del 2010, il resto del materiale fotografico risulta a tutt’oggi classificato. Quaranta di quelle foto, appositamente selezionate da James Bradley per illustrare i progressi tecnologici statunitensi, si sarebbero rivelate decisive nello spingere l’amministrazione USA a tentare il recupero del battello: giudicate impressionanti, esse presero a rimbalzare rapidamente dalla scrivania del vice-consigliere per la sicurezza nazionale Alexander Haig a quella del consigliere Henry Kissinger, arrivando infine sotto agli occhi del presidente Richard Nixon poco tempo dopo il suo insediamento nel gennaio del 1969. Erano trascorsi circa sei mesi dalla missione dell’Halibut.
L’autonomia delle operazioni di spionaggio condotte dalla Marina – e in special modo quelle affidate all’arma sottomarina, che presupponevano la padronanza di complesse nozioni di carattere nautico e tecnico – era sempre stata rispettata dalle altre agenzie di intelligence.
Nel momento in cui Nixon iniziò ad interessarsi personalmente al caso del K-129, tuttavia, la CIA colse il destro per scendere in lizza e questa autonomia venne rapidamente meno. Guidata dal suo direttore Richard Helms, l’Agenzia procedette a creare un comitato di raccordo con la Marina, denominato NURO (National Underwater Reconnaissance Office), in cui CIA e U.S. Navy avrebbero dovuto essere equamente rappresentate, ma ove l’ultima venne rapidamente sospinta ai margini del processo decisionale mediante l’inserimento di un numero sempre maggiore di consulenti provenienti dalla prima.
Si trattò di un intrigo burocratico decisivo nel delineare le specifiche tecniche del futuro Project Azorian, giacché con esso vennero isolati gli esperti dei programmi di recupero della Marina – uomini come Craven e Bradley – e le soluzioni da questi caldeggiate. I sottomarini classe Golf II, come si è visto, erano battelli a propulsione diesel-elettrica ormai antiquati.
Al momento della perdita del K-129 erano già entrate in servizio le prime due unità della classe Progetto 667A Navaga (Yankee): propulse da due reattori nucleari, con un dislocamento di quasi quattro volte superiore a quello dei Golf II e armate con 16 pozzi per i nuovi SLBM R-27 da 2400 km di portata, surclassavano nettamente qualsiasi sottomarino lanciamissili impostato sino ad allora sugli scali.
Le tecnologie a bordo del relitto di cui conveniva tentare il recupero erano pertanto ben poche: oltre alle testate termonucleari degli R-21, solamente la cassaforte contenente i cifrari e l’apparato ricetrasmittente meritavano una qualche attenzione onde decrittare le radiocomunicazioni sovietiche.
Per conseguenza Craven e Bradley caldeggiavano un approccio circoscritto, che avrebbe previsto l’impiego dei ROV filoguidati per tagliare solo alcune sezioni dello scafo e procedere al recupero del materiale sensibile. La CIA, per tramite di Carl E. Duckett - a– a capo del Directorate of Science&Technology – scartò però il piano per avanzare una proposta che gran parte degli uomini della Marina avrebbe continuato a considerare folle: tentare il recupero dell’intero K-129.
Nasceva così il Project Azorian.
Gli strumenti per rendere possibile un tale progetto, tuttavia, non esistevano ancora e avrebbero dovuto essere ideati da zero; e sebbene, come dimostrato dalla missione dell’Halibut, gli USA disponessero di una sufficiente base tecnico-scientifica per la loro progettazione e costruzione, l’intero processo avrebbe richiesto del tempo. Una volta selezionato il concetto operativo di base, ovvero quello del “direct lift” dello scafo, l’obiettivo divenne la realizzazione di una sorta di imbracatura di tubi di metallo da sistemare sotto la chiglia del sottomarino e in grado di sollevare approssimativamente dalle 2.000 alle 2.200 long tons (2.032 – 2.235 tonnellate metriche) da una profondità di 16.500 piedi (5032 m): questa stima preliminare si sarebbe rivelata ottimistica, dal momento che il relitto allagato del K-129 si sarebbe scoperto ascendere al peso di almeno 5.000 ton. A capo della task force della CIA incaricata di sviluppare la tecnologia necessaria fu messo John Parangosky, già responsabile dei progetti IDEALIST e OXCART (rispettivamente, per gli aerei-spia U-2 e A-12).
Questa imbracatura in acciaio avrebbe dovuto essere calata e issata da un bastimento di sufficienti dimensioni (565 x 106 piedi, secondo la documentazione declassificata nel 2010, pari a 172 x 32 m), la cui costruzione sarebbe stata affidata alla Sun Shipbuilding & Drydock Company di Chester, Pennsylvania; e poiché i sovietici avrebbero potuto facilmente scoprire e monitorare un progetto di così grandi dimensioni, la CIA contattò l’eccentrico miliardario Howard Hughes perché la sua Summa Corporation si prestasse a fornire una credibile storia di copertura. La futura Hughes Glomar Explorer (HGE), di 50.000 ton di dislocamento, sarebbe stata presentata come una nave per le prospezioni minerarie in acque profonde con cui la corporation di Hughes si proponeva di conseguire il monopolio nello sfruttamento dei noduli di manganese.
All’epoca la Summa Corporation era ancora sotto contratto con il governo per lo sviluppo di un certo numero di programmi segreti coinvolgenti la Difesa e i giornalisti che a partire dal 1975 avrebbero portato allo scoperto il Project Azorian – primo fra tutti Seymour Hersch – ipotizzarono che l’afflusso di fondi nelle casse di Hughes, in cambio del suo coinvolgimento nel programma, potesse servire anche per pagare i molti debiti politici contratti da Nixon prima della sua elezione.
Frattanto i tempi di sviluppo si allungavano, con i cantieri navali di Chester che si sarebbero visti aggiudicare la commessa soltanto nell’autunno del 1971. Quando la HGE fu pronta a prendere il mare nel 1974 si può concludere con ragionevole certezza che un simile tentativo di recupero fosse divenuto ormai anacronistico: in quello stesso anno i sovietici avevano già impostato sugli scali dei cantieri Sevmash di Severodvinsk i primi quattro battelli della nuovissima classe Progetto 667B Murena (Delta I); con un dislocamento di 10.000 ton in immersione e un armamento di 12 SLBM R-29 di 6.500 km di portata questi sottomarini, assieme alle unità delle successive serie Delta II, III e IV, avrebbero costituito la spina dorsale del deterrente nucleare imbarcato sino al collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.
Qualsiasi tecnologia potesse essere estratta dal relitto del K-129, essa si sarebbe dimostrata ampiamente superata; Azorian, in tal senso, continua a costituire un monito sulla tempestività che deve necessariamente connotare i programmi di carattere militare. Punto ancor più dolente, con l’allungamento dei tempi anche i costi del progetto erano lievitati: lo sperpero di fondi pubblici di cui la CIA si era macchiata avrebbe invero costituito il perno dello scandalo giornalistico esploso pochi mesi dopo l’unica missione di recupero tentata dalla nave.
L’entità dei finanziamenti attratti dal Project Azorian difficilmente potrà mai essere quantificata con certezza, dal momento che parte dei capitoli di spesa venne occultata in altri programmi ombra della CIA: anche la poca documentazione declassificata nel 2010 è stata accuratamente censurata in tutte le parti relative alle coperture finanziarie, anche se si ammette che al momento del completamento Azorian aveva superato del 60% i costi stimati. Pure, Sherry Sontag e Christopher Drew hanno valutato ipoteticamente i costi complessivi a ben 500 milioni di dollari del 1974, pari a quasi 3 miliardi di dollari del 2022. Un prezzo inaccettabile per quello che si sarebbe rivelato un fiasco tutt’altro che inevitabile.
Ironia della storia, Azorian sarebbe sopravvissuto non soltanto alla sua stessa utilità, ma anche all’amministrazione che l’aveva così fortemente voluto: come dettagliato dalla documentazione desecretata nel 2010, l’operazione di sollevamento del relitto del K-129 ebbe inizio l’1 agosto 1974 e si concluse il 9; in quello stesso giorno il presidente Nixon, oramai travolto dallo scandalo Watergate, avrebbe infine rassegnato le sue dimissioni.
Il clamore sollevato dal Watergate, continuando per mesi a tenere banco sui giornali, aveva peraltro contribuito a ritardare la deflagrazione del caso relativo al sottomarino sovietico, nonostante le prime indiscrezioni giornalistiche avessero preso a circolare già dall’ottobre del 1973. William Colby, il nuovo direttore della CIA entrato in carica a settembre, aveva dovuto dare fondo a tutte le sue capacità di persuasione, convincendo giornalisti come Hersch a posticipare la pubblicazione dello scoop sino a quando il tentativo di recupero non avesse infine avuto luogo. Lo stesso Hersch, tuttavia, avrebbe in seguito dichiarato che, più che dalle blandizie del capo della CIA, era stato trattenuto per settimane dal dare forma alle indiscrezioni su Azorian di cui era entrato in possesso semplicemente perché troppo occupato dalle vicende che stavano travolgendo l’amministrazione Nixon.
Mentre a Washington si giocava il destino della presidenza, la HGE era infine giunta nell’area delle operazioni il 4 luglio, sei anni dopo la scoperta del relitto del K-129 da parte dell’USS Halibut. Rispetto ai primi progetti che avevano immaginato la creazione di una sorta di rete metallica da tendersi al di sotto della chiglia del sottomarino, la nave era ora dotata di una enorme pinza di sollevamento dotata di otto ganasce mobili, a tre delle quali era assicurata una rete d’acciaio.
L’intero meccanismo, chiamato Clementine, era sospeso ad un cavo lungo 5 km, in realtà realizzato giuntando pazientemente, una dopo l’altra, sezioni di tubo d’acciaio lunghe ciascuna 18 m: per riavvolgere il meccanismo e riportare la pinza in superficie, le stesse sezioni di tubo avrebbero dovuto essere disassemblate l’una dopo l’altra. Clementine venne portata sulla verticale del relitto e tre delle otto ganasce vennero distese per avvolgere la rete metallica attorno alla vela del sottomarino, ma la velocità di discesa della pinza era eccessiva ed essa impattò violentemente contro il fondale marino.
Apparentemente intatta, gli operatori tornarono a mettere a fuoco la posizione delle ganasce attraverso le telecamere subacquee di cui era munita e riuscirono infine a stringere cinque degli otto artigli attorno allo scafo: quindi il K-129 iniziò a essere riportato in superficie alla disperante velocità di 2 m al minuto. A 3.600 m dalla superficie, tuttavia, tre delle ganasce cedettero, probabilmente a seguito del danneggiamento cui erano incorse impattando contro il fondale durante le operazioni di aggancio.
Lo scafo del K-129 rimase per qualche minuto ad oscillare, trattenuto da due sole ganasce, ed infine accadde quanto era stato previsto da Craven e Bradley al momento di bocciare come insensato il progetto messo a punto dalla CIA. Indebolite dall’urto contro il fondale al momento dell’affondamento del K-129, sottoposte a ulteriore stress meccanico dal peso dell’acqua entro lo scafo allagato, le lamiere cedettero di schianto: gran parte del sottomarino sovietico si sfaldò e i due artigli poterono riportare in superficie soltanto parte della sezione prodiera. Missili, cifrari e ricetrasmittenti tornarono ad affondare nelle acque del Pacifico assieme a frammenti dello scafo sparsi per ettari di fondale oceanico: come affermato da un ufficiale della Marina intervistato da Sontag e Drew, il K-129 si era dissolto come un Alka-Seltzer nell’acqua, pregiudicando qualsiasi nuovo tentativo di recupero.
Cosa contenesse di rilevante la sezione prodiera lunga appena 38 piedi (11,5 m) catturata dalla HGE è argomento a tutt’ora oggetto di congetture: nel 1993 una commissione d’inchiesta istituita dalla neonata Federazione Russa stabilì che gli statunitensi fossero riusciti ad impossessarsi quantomeno dei due siluri Type 53-58 e relative testate nucleari, anche se ad oggi questo fatto non è mai stato confermato dal governo USA.
Per certo in essa riposavano i corpi di sei sommergibilisti sovietici, cui le autorità statunitensi provvidero a concedere dei funerali con tutti gli onori: la cerimonia venne anche registrata su cassetta, nel caso in cui i sovietici fossero riusciti a carpire il segreto del progetto Azorian, costringendo l’amministrazione a imbarazzate spiegazioni. E in effetti la missione della HGE era stata a un passo dall’essere scoperta, anche se i singoli comandi sovietici non erano mai riusciti a ricomporre per tempo tutte le tessere del quadro.
Anatolij Štyrov, già ufficiale sommergibilista e all’epoca della missione della HGE primo vicecapo dell’intelligence della Flotta del Pacifico, aveva ripetutamente tentato di avvertire il comandante della flotta, ammiraglio Nikolaj Smirnov, che le prospezioni minerarie alla ricerca di noduli di manganese potevano costituire una storia di copertura, rappresentando il relitto del K-129 l’unico asset potenzialmente di valore presente nell’area. Il problema è che i sovietici non erano mai giunti a delimitare con sufficiente esattezza il sito dell’affondamento e le unità di sorveglianza inviate a spiare la HGE durante le prove in mare non erano mai riuscite ad intercettarla.
Per contro, durante le operazioni di recupero del luglio-agosto del 1974, la nave era incappata casualmente, il giorno 18 luglio, nella Chazhma: si trattava di un’unità sovietica per il monitoraggio dei test missilistici di ritorno dall’area dell’atollo Johnston dopo aver fornito supporto ad una missione SOYUZ/SALYUT. Con tutta evidenza essa non era in possesso di ordini specifici da parte del comando del Pacifico.
A bordo della HGE si erano consumate ore di tensione allorquando l’elicottero della Chazhma si era alzato in volo per compiere una serie di manovre aggressive, evidentemente finalizzate a scattare delle immagini dell’inusuale unità statunitense: temendo che tali mosse potessero preludere ad un tentativo di abbordaggio, l’equipaggio statunitense era stato lesto nel bloccare l’unica piattaforma d’atterraggio della HGE con tutte le casse da imballaggio a portata di mano, tenendosi pronto alla distruzione della documentazione sensibile presente a bordo.
Tale incontro, tuttavia, si era risolto per il meglio allorquando il comando della Chazhma si era dimostrato soddisfatto delle informazioni quanto a scopo e durata della missione trasmesse dalla nave. Il segreto sarebbe stato comunque infranto pochi mesi dopo, con la pubblicazione sul Los Angeles Times del 7 febbraio 1975 di un primo articolo invero pieno di inesattezze: il sottomarino sovietico cui la CIA avrebbe dato la caccia con l’aiuto di Howard Hughes, ad esempio, veniva collocato nell’Atlantico e non nel Pacifico.
Errori che sarebbero stati rettificati due mesi dopo dall’articolo di Hersch sul New York Times, col quale il velo di segretezza sul Project Azorian sarebbe stato infine sollevato. Significativamente la nuova amministrazione Ford si sarebbe trincerata dietro un secco no comment e non solo su suggerimento di Colby, ma anche recependo le indicazioni fornite tramite canali non ufficiali dalla stessa dirigenza sovietica: questa non aveva mai confermato la perdita del K-129 e che Washington avesse avuto successo là ove Mosca aveva fallito, ovvero nella localizzazione e nel parziale recupero del sottomarino affondato, costituiva per i sovietici motivo di grave imbarazzo. Con ambo i governi uniti nella conclusione di aver tutto da perdere da un’eccessiva pubblicizzazione della vicenda, non stupisce che sull’intera vicenda cadesse in breve una coltre di silenzio perpetuatasi anche oltre la conclusione della Guerra Fredda.
Azorian fu l’ultimo e il più imponente dei programmi il cui sviluppo venne affidato al Directorate of Science&Technology della CIA; di lì a poco le indagini condotte dal Church e dal Pike Committee sui presunti abusi commessi dall’Agenzia avrebbero contribuito in modo decisivo a limitarne la libertà di manovra, ivi compreso l’utilizzo di fondi pubblici al di fuori di ogni controllo.
Il tentativo di recupero del K-129 è stato spesso definito – in primis dai veterani dell’operazione in forza alla CIA – come ardito, ingegnoso e creativo. Il personale proveniente dai ranghi della U.S. Navy avrebbe continuato ad essere molto meno indulgente al riguardo: per Craven e Bradley, ad esempio, era evidente che le idee alla base del programma fossero fantasie malsane, tipiche chi non aveva alcuna esperienza di operazioni sottomarine.
La missione di recupero architettata dalla CIA era brillante ed era vero che la Hughes Glomar Explorer avrebbe potuto costituire un banco di prova per lo sviluppo di tecnologie utili per le operazioni di soccorso e recupero a grande profondità; né va trascurata la capacità dimostrata dall’intelligence statunitense di ingannare i sovietici, nonostante la grandiosità del progetto lo rendesse ben difficile da nascondere ad occhi indiscreti. Al contempo, tuttavia, Azorian era stato intempestivo e nient’affatto necessario: 6 anni e 500 milioni di dollari erano stati impiegati in un discutibile tentativo di recupero di alcune tecnologie oramai datate, e questo tentativo si era per giunta rivelato un fiasco.
Agli occhi dell’osservatore contemporaneo Azorian si staglia probabilmente come un buon esempio dello strapotere dei servizi di intelligence, alimentato dal clima di paranoia tipico della Guerra Fredda, e di come esso possa condurre ad interventi non in linea con una razionale valutazione di obiettivi e priorità nell’ambito della sicurezza nazionale.
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