ESCLUSIVO: Una cittadina italiana detenuta per quattro ore dalla dogana statunitense
Natalie Balloni, di 25 anni, era andata a trovare una famiglia di amici. Non immaginava certo di essere interrogata in modo brutale e psicologicamente violento
La nuova stretta promessa da Donald Trump sui migranti irregolari che vivono nel Paese si è allargata anche a chi vuole entrare legalmente. Se nei mesi prima delle elezioni ideologi di estrema destra come Steve Bannon e Stephen Miller proclamavano un obiettivo di limitare fortemente “anche l’immigrazione legale”, venendo minimizzati da certa stampa normalizzatrice, oggi le azioni del governo statunitense sembra stiano ponendo problemi seri anche a chi va nel Paese per ragioni temporanee, come un convegno e semplicemente per lavorare qualche mese. Un ricercatore francese, ad esempio, è stato respinto alla frontiera perché le guardie doganali hanno trovato sul suo cellulare delle critiche al Presidente in una chat privata, mentre un cittadino tedesco legalmente residente negli Stati Uniti è finito in un carcere dell’Immigration Custom and Enforcement degli Stati Uniti (ICE), in una situazione che il suo avvocato ha definito “limbo legale” e si trova lì ancora oggi, senza che una soluzione sia in vista.
Finora, nessun italiano era finito nelle mani della polizia di frontiera, in questo caso l’U.S. Customs and Border Protection (CBP), ma oggi noi di Jefferson vi presentiamo in esclusiva un caso che ha coinvolto una studentessa italiana, Natalie Balloni, che si trovava negli Stati Uniti per visitare una famiglia di amici.
Abbiamo raccolto la sua testimonianza, che pubblichiamo senza editing, per dare ai nostri lettori una fonte di primissima mano di cosa significa oggi affrontare le maglie della polizia doganale americana. Sono stati soltanto evidenziati alcuni concetti espressi dalla nostra intervistata.
Natalie, parlaci di te e del motivo per cui sei andata negli Stati Uniti. Non era la prima volta, vero?
Sono stata una ragazza alla pari per due anni a Chicago dal 2019 al 2021. A gennaio sono tornata negli Stati Uniti per visitare la famiglia che mi ha ospitato, con cui ho mantenuto un ottimo rapporto. Era la terza volta che li andavo a trovare dopo il periodo trascorso con loro.
Cosa ti aspettavi di trovare all’arrivo?
Avendo già affrontato i controlli in passato, mi aspettavo la solita routine: dopo ore di attesa, incontrare ufficiali cordiali e disponibili che mi avrebbero chiesto il biglietto di ritorno e il motivo della mia visita, scambiato qualche battuta e poi proseguito a ritirare la mia valigia. Non avevo alcun motivo di pensare che qualcosa potesse andare diversamente.
Quando hai capito che qualcosa non andava e che saresti stata trattenuta?
Dopo aver risposto alle domande di routine, un’addetta ai controlli mi ha chiesto di attendere l’arrivo di un altro ufficiale. Hanno preso il mio passaporto e mi hanno condotta in una stanza con una TV, delle panchine e altre persone trattenute. Dopo due ore di attesa, ho iniziato a preoccuparmi vedendo che persone arrivate dopo di me venivano rilasciate mentre io non ricevevo alcuna informazione.
A un certo punto hanno iniziato a chiamare, uno per volta, coloro che erano lì da più tempo per portarli in un’altra stanza. È stato allora che ho capito che non si trattava di un semplice controllo passaporti, ma che sarei stata interrogata. Quando è arrivato il mio turno, mi hanno ritirato il telefono chiedendomi di autorizzare l’accesso alle mie conversazioni. Dopo un’attesa di circa mezz’ora o quaranta minuti, sono stata richiamata. Ho realizzato la gravità della situazione quando hanno iniziato a distorcere il significato di alcune conversazioni trovate sul mio telefono, cercando di mettermi parole in bocca.
Non sono una persona timida, quindi non ho avuto difficoltà a correggerli, sempre con rispetto e senza perdere la calma, anche se dentro di me provavo una forte rabbia per essere trattata come una criminale.
A un certo punto però, dopo diverso tempo, ti hanno rilasciata. Cos’hai provato in quel momento? Hanno addotto qualche motivazione?
L’ufficiale che mi ha interrogato mi ha restituito il passaporto dicendomi semplicemente: “Just don’t come back as often.” La motivazione ufficiale che mi è stata data è che risultavo “sospetta” perché ero stata negli Stati Uniti per tre mesi tra luglio e ottobre, pur avendo rispettato tutte le regole del visto ESTA.
Nel momento in cui sono uscita da quella stanza, sono scoppiata a piangere per il sollievo. Per settimane, ho vissuto con l’ansia di uscire di casa, temendo di essere controllata. Ricordo ancora chiaramente le tecniche utilizzate per intimidirmi e spingermi ad ammettere un reato che non avevo commesso.
Dopo la tua esperienza, cosa consiglieresti a chi viaggia negli Stati Uniti? Cos’hai notato di diverso nei controlli doganali rispetto alle volte precedenti?
Dopo questa esperienza, consiglierei di prestare particolare attenzione a ciò che si ha sul telefono e di affrontare il viaggio con grande cautela. È fondamentale rispettare gli ufficiali, ma allo stesso tempo non avere paura di difendersi e spiegare più volte la propria situazione, se necessario.
Questa è stata la prima volta in cui mi sono sentita parte della narrativa dell’“immigrata che vuole rubare il lavoro”. In passato avevo sempre incontrato gentilezza e disponibilità, mentre questa volta ho percepito pregiudizio e chiusura.