Le ambiguità di Elon Musk, “assolutista della libertà d’opinione”
Politica, soldi, Twitter. L’uomo più ricco del mondo ha spesso ondeggiato tra posizioni e schieramenti contrastanti.
Un agente dei “servizi segreti statunitensi” (USSS) ha donato, in un anno, 1.512 dollari al Partito Repubblicano di Donald Trump per supportarlo in vista delle elezioni poi perse contro Joe Biden.
Quella spia è Elon Musk, CEO di SpaceX e Tesla.
Musk e la politica
Non è chiaro se il lavoro da agente segreto sia vero (con ogni probabilità è l’ennesima burla del tycoon nativo del Sudafrica), ma la sua simpatia per l’elefantino americano non è una notizia recente, nonostante il miliardario dica spesso di voler stare fuori dai giochi della politica.
Scorrendo nell’archivio della Fec (Federal Election Commission), l’ente che si occupa di monitorare le donazioni dei cittadini americani verso la politica, a nome di Musk, nel 2021, risultano circa 30.000 dollari in donazioni verso il Partito Repubblicano o alcuni suoi esponenti, mentre le somme devolute ai democratici sono decisamente più basse (circa 8mila dollari). Va ricordato, tuttavia, che negli anni precedenti le elargizioni nei confronti dei due schieramenti sono grosso modo equivalenti.
Nel suo lungo rapporto con la politica, il capo di SpaceX se l’è presa un po’ con chiunque, anche se il suo bersaglio preferito sembra essere Joe Biden, definito in più occasioni «un pupazzo di stoffa». E dire che nella legge “Build Back Better” il presidente americano ha inserito sussidi per chi produce mobilità elettrica, uno dei fiori all’occhiello di Musk. Che, però, commentava così: «Se io fossi il presidente cancellerei l’intera legge. Lo Stato americano ha speso troppi soldi del suo bilancio pubblico, sarebbe un investimento folle. Non ci serve il supporto federale per le pompe di benzina, figuriamoci per una rete di stazioni di ricarica elettrica».
Qualche malalingua, in quella circostanza, aveva ipotizzato che le critiche del tycoon fossero spinte da un dettaglio: a beneficiare degli aiuti di Stato sarebbero solo le aziende con una rappresentanza sindacale al loro interno, organo di cui Tesla è sprovvista e verso cui l’imprenditore americano ha più volte combattuto (per esempio, minacciando la perdita delle opzioni dei dipendenti sulle azioni dell’azienda se questi si fossero sindacalizzati).
Anche con Bernie Sanders, senatore democratico e principale avversario di Biden alle scorse primarie, i rapporti non sono idilliaci. Quando nel novembre 2021 Sanders aveva twittato «Dobbiamo chiedere che i super ricchi paghino la loro giusta quota di tasse, anche riguardo le azioni che posseggono», Musk aveva replicato stizzito: «Dimenticavo fossi ancora vivo. Vuoi che venda altre azioni? Basta dirlo».
Fuga dalle tasse
A proposito di tasse, la strategia economica di Musk lo ha portato nel 2021 a spostare la sede di Tesla dalla Silicon Valley al Texas, dove le imposte locali sul reddito sono nulle. E non è stato l’unico nome eccellente a passare dal Golden State al Lone Star State: Hewlett Packard (HP), tra le aziende fondatrici della Silicon Valley, aveva avviato lo stesso trasloco nel 2020, così come Oracle, SignEasy, Question Pro, DZS e 8VC. Anche i grandi imprenditori, attirati dai vantaggi che il fisco texano offre, hanno deciso di spostarsi lì: Musk era stato il primo a farlo, nel 2020, insieme a Drew Houston (Ceo di Dropbox) e Douglas Merritt (Ceo di Splunk).
Anche in quella circostanza, il padre di Tesla non aveva risparmiato critiche nei confronti della Silicon Valley, definita «una squadra sportiva seduta sugli allori che crede che tutto gli è dovuto e poi improvvisamente non vince più il campionato». Al governo, invece, l’accusa di ostacolare il genio imprenditoriale con la burocrazia. «Dovrebbe togliersi di mezzo davanti agli innovatori» aveva detto, con le valigie in mano verso Austin.
Il riferimento era anche agli scontri con le autorità californiane relativi alle misure anti-covid, che avevano portato alla chiusura dell’impianto locale di Tesla e alla sua pronta riapertura da parte di Musk, che aveva accusato i funzionari locali di «violare la libertà delle persone». Nessuna parola, però, contro il governo cinese. E dire che a Shanghai, dove c’è un impianto chiave di Tesla, le persone sono sequestrate in casa da mesi. Lì l’azienda di auto elettriche ha potuto continuare a lavorare rinchiudendo i suoi dipendenti nella fabbrica.
Libertà di espressione, mon amour
L’ultima trovata dell’imprenditore nativo del Sudafrica è l’acquisto di Twitter. Prima ne è diventato il maggior azionista, acquistando poco meno del 10 per cento di quote, poi si è assicurato il controllo del social network per circa 44 miliardi di dollari. Obiettivo, secondo Musk, ripristinare la libertà di espressione, «cardine di ogni società democratica» e ostacolata dalla policy di Twitter circa le restrizioni e i ban che hanno coinvolto, tra gli altri, l’ex presidente americano Trump.
L’imprenditore si è definito «assolutista della libertà di parola», sottolineando la necessità di allargare le maglie dei meccanismi di controllo di Twitter sui contenuti condivisi. Il rischio è che, con l’acquisizione della piattaforma, fake news e disinformazione si diffondano senza controllo, un pericolo che ha portato Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, a minacciare l’esclusione di Twitter dal suolo europeo, se Musk si rifiutasse di seguire le nuove regole comunitarie sui social network previste dal Digital Services Act.
Non è chiaro come si muoverà il miliardario in materia di controllo dei contenuti. Una grande mano, però, potrebbe arrivare da alcuni dei suoi compagni di avventura in questa acquisizione, come il fondo sovrano qatariota e il principe saudita Al-Waleed bin Talad. In quelle zone la libertà di espressione non è certo un problema: in Qatar una legge punisce chi diffonde notizie “false o tendenziose” con pene fino a cinque anni di carcere, mentre il regime saudita ha di recente assassinato il giornalista antagonista Jamal Khashoggi dopo averlo sequestrato nel proprio consolato in Turchia.
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