El Salvador: la svolta repressiva di Nayib Bukele
Dalla lotta alle gang alla stretta sui diritti: l'evoluzione della politica di sicurezza nel paese del Centro America
La Repubblica di El Salvador, in America centrale, confina a nord-ovest con il Guatemala e a nord e a est con l’Honduras. Per anni, è stato considerato uno dei Paesi più pericolosi al mondo, con un tasso di omicidi che nel 2015 raggiungeva cifre sconvolgenti (103 ogni 100.000 abitanti). Tuttavia, oggi, a seguito della politica di sicurezza fortemente repressiva del presidente Nayib Bukele, questo numero è diminuito drasticamente, arrivando nel 2024 a 1,9 omicidi ogni 100.000 abitanti.
La principale causa della violenza nel Paese è da ricondurre alla presenza di bande criminali che, nel tempo, hanno preso il controllo di intere città e zone rurali. Il fenomeno delle gang salvadoregne ha radici profonde e risale a oltre trent’anni fa, all’epoca della guerra civile che ha insanguinato il Paese dal 1979 al 1992. Durante il conflitto molti giovani, per fuggire da violenza e povertà, si rifugiarono a Los Angeles, in California: molti di loro finirono per essere coinvolti nelle attività della criminalità organizzata. Anni dopo, gli Stati Uniti scelsero di adottare politiche anti immigratorie e di guerra alla droga fino a quando, nel 1996, fu approvata la legge sulla riforma dell’immigrazione illegale e la responsabilità degli immigrati: molti salvadoregni vennero espulsi e deportati a El Salvador.
Da quel momento, in tempi relativamente brevi, le gang iniziarono progressivamente a prendere il controllo del territorio, in particolare nelle periferie più povere e nelle zone rurali, stremate dalla guerra civile.
Le gang erano numerosissime e alcune di esse rivali tra loro. I due gruppi principali erano l’MS-13 (abbreviazione di Mara Salvatrucha) e Barrio 18. Queste strutture criminali, note come maras e pandillas, avevano una struttura gerarchica in cui la posizione di ciascun membro dipendeva dal tipo di incarico assunto. Le loro attività spaziavano dallo spaccio di droga alle estorsioni, fino agli omicidi. A far parte di questi gruppi erano anche ragazzini dagli 8 ai 12 anni che, quanto meno al loro inserimento, svolgevano principalmente il ruolo di sentinella nel caso in cui arrivassero la polizia o l’esercito. Questi ragazzi provenivano da contesti familiari difficili o assenti: probabilmente, l'appartenenza a una gang era per loro l’unico modo di sentirsi parte di un gruppo e di affermare la propria identità.
Diventate ormai il problema centrale del Paese, nel corso degli anni vari governi tentarono di affrontare le gang. Già a partire dagli anni Novanta, i governi di destra del partito Arena promossero politiche di repressione del crimine e arresti di massa, aggravando il problema del sovraffollamento carcerario. Successivamente, nel 2014, il governo di sinistra guidato dal partito FMLN scelse di intraprendere una via alternativa, provando a investire maggiormente sulla prevenzione, istituendo il Consiglio Nazionale per la Sicurezza Cittadina e la Convivenza e avviando, con il il supporto della comunità internazionale, il Plan El Salvador Seguro, atto a promuovere la prevenzione e repressione dei reati, dando grande importanza alla riabilitazione e al reinserimento dei detenuti.
A basare tutta la sua campagna elettorale proprio sulla piaga sociale delle gang criminali è stato l’attuale Presidente di El Salvador, Nayib Bukele, l'unico che è riuscito effettivamente in questa impresa. Dalla sua elezione, nel 2019, è riuscito a ripristinare in modo significativo la sicurezza nel proprio Paese, a costo di tattiche di polizia draconiane e metodi che molti osservatori hanno definito autoritari. Non solo: il Presidente salvadoregno è riuscito a consolidare il proprio potere portando il suo partito Nuevas Ideas al pieno controllo dell’assemblea legislativa e del governo. Bukele si era già assicurato una solida maggioranza alla Corte Suprema ed era riuscito ad accentrare tutti i poteri su di sé, garantendosi un secondo mandato nel 2022, nonostante la Costituzione ne preveda solo uno.
Le sue carceri, al centro delle politiche di sicurezza, hanno trasformato il Paese ma allo stesso tempo hanno suscitato l’allarme delle organizzazioni per i diritti umani e degli attivisti democratici. Nel 2022, a seguito dell’uccisione di 87 persone da parte dell’MS-13, Bukele ha dichiarato lo stato di emergenza, tuttora in vigore.
Ai sensi dell’articolo 29 della Costituzione salvadoregna, in scenari eccezionali quali guerra, calamità naturali o episodi di grave turbamento dell’ordine pubblico lo Stato può dichiarare lo stato di emergenza e sospendere alcune garanzie costituzionali. In base a tale disposizione, sono stati autorizzati l’arresto senza mandato di arresto e la detenzione fino a 15 giorni senza accesso a una consulenza legale, è stato violato il diritto al giusto processo e la polizia può controllare arbitrariamente i telefoni.
Se quindi da un lato Bukele ha ottenuto i risultati promessi, anche tramite presunte negoziazioni segrete e illegali con i leader più potenti delle gang – così come affermato dall’ex leader della fazione del Barrio 18 Carlos Cartagena in un intervista rilasciata al portale El Faro – dall’altro, molte ONG come Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato che, per combattere le gang, sono stati effettuati arresti indiscriminati e si sono verificate gravi violazioni dei diritti umani. Molte, infatti, sono le testimonianze di famiglie disperate che raccontano la scomparsa di loro parenti; altrettante sono le persone che si sentono vittime innocenti di vendette e abusi.
A seguito dei rastrellamenti, migliaia di uomini sono stati rinchiusi in celle sovraffollate le cui condizioni lasciano molto a desiderare, come mostrano i video girati durante “la visita” di Kristi Noem, Segretaria della Sicurezza Interna degli Stati Uniti, in un carcere di massima sicurezza a El Salvador.
La domanda, a questo punto, è come si inseriscano gli Stati Uniti in questa situazione preoccupante. Già a gennaio 2025 il presidente americano Donald Trump e Bukele avevano discusso telefonicamente una possibile collaborazione, al fine di fermare l’immigrazione clandestina e reprimere il fenomeno delle bande criminali internazionali. La successiva visita a El Salvador del Segretario di Stato Marco Rubio, nel mese di febbraio, è stata poi l’occasione per definire i dettagli dell’accordo che prevede l’uso del CECOT (Centro di confinamento contro il terrorismo) come estensione del sistema carcerario statunitense, con un “costo” annuale del servizio di 20.000 dollari per detenuto. Bukele ha definito tale cifra “relativamente bassa per gli Stati Uniti ma significativa per noi, rendendo sostenibile il nostro intero sistema carcerario”.
Così, già da marzo, in base all’Alien Enemy Act e all’Immigration and Nationality Act, nel CECOT sono stati deportati anche immigrati e presunti criminali individuati dall’amministrazione Trump. Tuttavia, la decisione ha sollevato numerose polemiche e denunce, sia a livello nazionale che internazionale. Molti accusano l’ordine esecutivo di Trump di violare il diritto internazionale, che proibisce la deportazione di migranti verso Paesi dove è probabile che siano esposti a gravi violazioni dei diritti umani, come sembra essere il caso del CECOT.
Nel frattempo, Bukele ha approvato una nuova legge volta a contrastare le “ONG globaliste”, in base alla quale le organizzazioni con finanziamenti stranieri verranno iscritte a un registro speciale: il governo potrà decidere se bandirle nel caso le ritenga “pericolose”. Le donazioni estere, poi, saranno tassate al 30 per cento. Uno scenario tutt’altro che rassicurante, che sembra proiettare sempre di più il Presidente salvadoregno sulla strada dell’autoritarismo.