Ecco le sentenze più ingiuste della storia della Corte Suprema
Viaggio tra alcune delle sentenze SCOTUS che hanno causato più scalpore
Nella sua lunga e travagliata storia, segnata dal ciclico ricambio dei suoi giudici e da una composizione ‘ideologica’ sempre mutevole, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha spesso deliberato su questioni particolarmente controverse. Oggi esploreremo tre sentenze, ciascuna proveniente da un periodo molto diverso della storia americana contemporanea, che hanno contribuito a plasmare profondamente.
Dredd Scott v. Sandford: un regalo agli schiavisti
È il 1833 quando il Dottor John Emerson, chirurgo della US Army, acquisisce uno schiavo di nome Dred Scott da una fattoria in Missouri. La carriera del medico lo spinge a trasferirsi spesso, portando con sé Scott, costretto a fargli da domestico e factotum. Il dottore si trasferisce prima in Illinois, uno ‘stato libero’ dove la schiavitù non è contemplata, per poi passare al Territorio del Wisconsin, dove costringe Scott e sua moglie Harriet a lavorare per altri ufficiali nella base di Fort Snelling.
Facendo ciò, Emerson agì retta contravvenzione alla legislazione federale, che con il cosiddetto ‘Compromesso del Missouri’ del 1820 aveva stabilito l’illegalità della schiavitù in tutti i nuovi territori e stati al nord del trentaseiesimo parallelo. Anni dopo la morte di Emerson, Scott e la sua famiglia tentarono di affrancarsi versando una somma cospicua alla vedova Irene Sandford, incontrando il rifiuto della donna. Messo alle strette, lo schiavo decise quindi di percorrere la difficile via delle ‘freedom suits’, cause legali che gli schiavi potevano intentare ai loro proprietari per dimostrare il loro diritto all’affrancamento.
Le corti locali dello stato del Missouri diedero in primo luogo ragione a Scott, che era riuscito a dimostrare la sua precedente permanenza in uno stato libero, condizione che a rigor di legge avrebbe dovuto affrancarlo automaticamente, ma la decisione delle corti minori fu rovesciata in appello dalla Corte Suprema del Missouri che prese le parti della vedova. A Scott non restava che rivolgersi alla Corte Suprema federale, che esaminò il suo caso nel 1856.
La Corte era all’epoca guidata da Roger Taney, nominato vent’anni prima dal presidente Andrew Jackson. Taney non era un convinto sostenitore della schiavitù, ma la sua filosofia giuridica lo rendeva favorevole alla concezione federalista dei ‘diritti degli stati’, cioè al diritto intrinseco degli stati dell’unione a preservare alcune peculiarità ed istituzioni senza incontrare interferenze dal governo di Washington. Tra queste, era inclusa anche la schiavitù
La Corte presieduta da Taney decretò che Scott non aveva diritto a fare ricorso alla Corte Suprema, in quanto schiavo: nel ‘ragionamento’ della Corte, gli schiavi non avevano fatto parte della ‘comunità politica’ che aveva fondato gli Stati Uniti e codificato la loro Costituzione. In luce di ciò, non erano neppure definibili come cittadini americani. Gli stati ‘liberi’ non potevano inoltre arrogarsi la possibilità di concedere la libertà agli schiavi che passavano per il loro territorio, poiché essi contavano come proprietà dei loro padroni, e il Quinto Emendamento proibisce agli organi giuridici federali e statali di privare un proprietario dei suoi beni senza una giusta compensazione.
Dredd Scott v. Sandford segnò la fine del Compromesso del Missouri, che era stato già formalmente abolito dal Kansas-Nebraska Act del 1854 fortemente voluto dai politici schiavisti del Sud. La schiavitù poteva essere quindi espansa nel resto dei nuovi stati dell’unione con il ‘supporto popolare’ dei loro abitanti, una definizione vaga che presto portò a sanguinosi scontri tra abolizionisti e sostenitori della schiavitù per ottenere il controllo degli organi legislativi dei nuovi stati, come nel caso del conflitto del Bleeding Kansas.
Le conclusioni razziste e discriminatorie della sentenza della corte di Taney vennero superate soltanto dall’adozione del tredicesimo e quattordicesimo emendamento all’indomani della Guerra Civile Americana, con l’abolizione della schiavitù ed il ripristino dei diritti di cittadinanza degli ex schiavi.
Roe v. Wade: il diritto all’aborto
È il 1973 quando al cospetto della Corte Suprema presieduta dal giudice Warren E. Burger arriva un ricorso che interessa una materia complicata e controversa: l’interruzione volontaria della gravidanza. All’epoca, l’aborto era quasi totalmente bandito in 30 stati dell’unione, mentre soltanto 4 garantivano una certa libertà decisionale alle donne.
“Jane Roe”, pseudonimo di Norma McCorvey, aveva fatto ricorso contro il Procuratore Distrettuale della contea di Dallas Henry Wade, sostenendo che le leggi antiabortiste del Texas e di altri stati erano in realtà incostituzionali. McCorvey, già madre di due figli, stava portando avanti una terza gravidanza, questa volta indesiderata. Spalleggiata dalle avvocate femministe Sarah Weddington e Linda Coffee, McCorvey fu prima di tutto ascoltata dai giudici della Corte d’Appello Federale del Quinto Circuito, che le diedero ragione. Dopo la richiesta d’appello da parte del Procuratore Wade, la causa arrivò rapidamente alla Corte Suprema federale.
Con una maggioranza di sette giudici su nove, la Corte stabilì che le cittadine americane avevano un diritto ad usufruire dell’interruzione di gravidanza, derivante dal diritto alla privacy personale sancito dal quattordicesimo emendamento: nell’interpretazione della Corte, l’impossibilità a terminare una gravidanza indesiderata poteva arrecare danni alla salute, all’equilibrio psicofisico ed alle finanze delle donne coinvolte, violandone quindi anche il diritto a condurre liberamente la propria vita privata. Questo diritto all’aborto non era tuttavia da intendere in modo assoluto: la Corte aggiunse che, per bilanciare il diritto alla privacy con la tutela della salute materna e neonatale, gli stati potevano liberamente fissare un limite all’utilizzo dell’IVG dopo la fine del primo trimestre di gravidanza, periodo in cui invece la procedura andava garantita a tutte le donne che ne avessero fatto richiesta, dopo le necessarie visite mediche.
Questo compromesso, tuttavia, non placò le critiche feroci di chi si opponeva alla sentenza della Corte Suprema, ritenuta dagli attivisti antiabortisti un abuso dell’autorità federale contro i ‘diritti degli stati’ a stabilire le proprie leggi con la più ampia discrezione possibile. Altre voci, più moderate, non criticavano l’esito della sentenza, ma la giurisprudenza adoperata dalla maggioranza ‘liberal’ della Corte Suprema per metterla in atto: la connessione tra il diritto alla privacy sancito dalla costituzione ed il diritto ad abortire ricavato da esso appariva tenue, e prestava un fianco debole a tentativi futuri di scardinamento da parte di corti più ‘conservatrici’.
Roe V. Wade è stata successivamente demolita dalla nuova maggioranza conservatrice della Corte nel 2022, che ha quindi riconsegnato agli stati pieni poteri legislativi per quanto riguarda la legalità dell’aborto: nella opinion della maggioranza, il giudice Alito critica la precedente interpretazione che collegava la pratica al diritto alla privacy, ribadendo l’inesistenza di un diritto specifico.
Citizens United v. Federal Electoral Commission: il potere dei soldi nella politica elettorale
Più tecnica ma non meno impattante è stata la decisione presa dalla Corte Suprema, all’epoca tendente al ‘conservatorismo’ giuridico, nell’ambito del caso Citizens United v. FEC, una sentenza con implicazioni chiave per quanto riguarda lo svolgimento delle campagne elettorali e il coinvolgimento di donazioni provenienti da cittadini facoltosi o da importanti corporation.
È il 2008 quando la Commissione Elettorale Federale, l’organo governativo adibito a tutelare il corretto svolgimento delle elezioni presidenziali e del Congresso, blocca la pubblicazione di un film critico dell’allora candidata alle primarie del Partito Democratico Hillary Clinton: il film sarebbe stato pubblicato meno di trenta giorni prima della data d’inizio delle primarie in Iowa, contravvenendo quindi ai regolamenti stabiliti dal Bipartisan Campaign Reform Act (BCRA) del 2002.
I produttori del film, l’associazione no-profit di orientamento conservatore ‘Citizens United’ citano in giudizio la FEC, ma il dossier arriva alla Corte Suprema soltanto due anni dopo, nel 2010. Con una majority opinion scritta dal giudice Anthony Kennedy, la Corte da ragione a Citizens United ed invalida i provvedimenti del BCRA: essi sarebbero una restrizione incostituzionale del diritto alla libertà d’espressione previsto dal Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che quindi includerebbe anche la facoltà delle associazioni private di sostenere, anche economicamente, i candidati politici da loro favoriti.
La decisione della Corte attirò critiche feroci anche in questo caso, desumibili pure dal ‘dissenting opinion’ scritto dal giudice di orientamento liberal John Paul Stevens: La decisione della Corte apriva le porte ad un afflusso spropositato di dark money nella politica americana, finanziamenti provenienti da multinazionali e privati affluenti opportunamente ‘occultati’ sotto forma di donazioni compiute tramite i PAC (Political Action Committee), organizzazioni non-profit costruite ad-hoc per facilitare questo tipo di operazioni. Una pratica che, secondo Stevens, avrebbe presto avuto un effetto distorsivo e degradante sulla qualità della democrazia negli Stati Uniti, configurandosi come una vera e propria forma di corruzione legalizzata.
L’influenza dei PACs durante i cicli elettorali si è fatta sempre più preponderante: negli anni 2019 e 2020, si stima che queste organizzazioni siano riuscite a collezionare quasi 13 miliardi di dollari da destinare alle campagne elettorali di candidati sparsi per tutto lo spettro politico, e ad altre attività di lobbying politico e parlamentare.