Diritti addio e deportazioni arbitrarie: le ingiustizie della nuova politica migratoria USA
Tra accuse infondate, sentenze ignorate e rimpatri forzati, il nuovo corso americano mette a rischio rifugiati e innocenti, come sta succedendo a El Salvador

Nel panorama internazionale segnato dall’ascesa dei governi sovranisti, il controllo delle frontiere è tornato al centro dell’agenda politica globale. L’immigrazione, da fenomeno strutturale, è ormai trattata come una minaccia da contenere. Negli Stati Uniti, il tema ha rappresentato uno dei pilastri della campagna elettorale di Donald Trump, che — una volta tornato alla Casa Bianca — ha rilanciato una versione evoluta della sua storica retorica del “muro”. A complicare ulteriormente il quadro, le tensioni con i Paesi di origine e transito dei migranti, che trasformano la gestione dei flussi in una questione sempre più intrecciata alla diplomazia internazionale.
El Salvador è in questo momento un attore centrale nella strategia migratoria statunitense, nonostante sia uno tra i Paesi più piccoli dell’America Centrale. Epicentro del flusso migratorio dell’aera geografica, vede i suoi cittadini lasciare la nazione in massa ogni giorno per allontanarsi dai problemi di povertà, instabilità economica e violenza radicata legata alle gang.
Il presidente salvadoregno Nayib Bukele, rieletto lo scorso anno nonostante i dubbi sollevati sulla legittimità della sua candidatura, ha deciso di applicare il pugno di ferro contro le bande criminali che, da anni, esercitano un controllo parziale sul Paese. Dal 2022 governa in uno stato d’eccezione permanente (régimen de excepción): una misura prevista dalla Costituzione salvadoregna per situazioni straordinarie, come guerre o gravi minacce alla sicurezza nazionale. In sostanza, il governo può sospendere temporaneamente alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla difesa legale immediata, la libertà di associazione, la libertà di movimento e l’inviolabilità delle comunicazioni. In questo periodo sono stati almeno 327 i casi documentati di sparizione forzata, a fronte di oltre 78.000 detenzioni arbitrarie su un totale di circa 102.000 persone attualmente private della libertà. Le carceri del Paese risultano sovraffollate del 148 per cento e si contano almeno 235 morti in custodia.
In questo contesto, l’amministrazione Trump ha stretto accordi proprio con il governo Bukele già nel 2019, siglando l’Asylum Cooperative Agreements, che prevedeva il trasferimento di richiedenti asilo da confini USA verso i Paesi del triangolo del Nord (El Salvador, Honduras e Guatemala). Un accordo revocato durante la presidenza Biden per ragioni principalmente umanitarie: nessuno di questi Paesi era infatti in grado di garantire la messa in sicurezza dei migranti trasferiti.
Trump aveva promesso ai suoi elettori che con la sua rielezione avrebbe invece riabilitato l’accordo, espandendone l’efficacia. Ha infatti definito una nuova intesa bilaterale con Bukele, nella quale El Salvador offre agli Stati Uniti l'opportunità di ospitare nel CECOT (Centro de Confinamiento del Terrorismo) migliaia di detenuti espulsi dagli USA, molti dei quali accusati di appartenere a gang o di aver commesso crimini federali.
Un accordo che ha sollevato forti preoccupazioni a livello internazionale, soprattutto sul fronte della tutela dei diritti umani. Questo nuovo protocollo è finito al centro delle polemiche per l’arbitrarietà delle deportazioni verso El Salvador, con una serie di casi controversi che hanno coinvolto anche cittadini americani, espulsi senza accuse documentate o con procedimenti giudiziari ancora in corso.
Il caso di Kilmar Abrego García è rapidamente diventato il simbolo delle contraddizioni e imprecisioni senza alcun fondamento legislativo che comportano l’accordo tra Washington e San Salvador. Abrego, cittadino salvadoregno, viveva negli Stati Uniti da anni, protetto da una sentenza del 2019 che gli garantiva il diritto a restare sul suolo americano in quanto potenziale vittima della violenza delle gang nel suo Paese d'origine. Una premessa che non è bastata a evitargli la deportazione illegale verso El Salvador nello scorso aprile. Un atto che è avvenuto in aperta violazione di un ordine della Corte Suprema, che ne sospendeva l’espulsione. Una volta rimpatriato, è stato immediatamente trasferito al CECOT, dove si trova tuttora in stato di detenzione, condividendo la prigionia con i membri delle gang dalle quali era minacciato. Le autorità statunitensi, interrogate sul caso, hanno richiesto l’archiviazione del ricorso presentato dai legali di Abrego, motivando la decisione con l’argomentazione che, essendo ormai fuori dal territorio nazionale, il sistema giudiziario federale non avrebbe più competenza sul suo caso.
Il caso Abrego García non è isolato. Altro esempio emblematico è quello di Andry Hernández Romero, cittadino venezuelano deportato dagli Stati Uniti a El Salvador a causa di due tatuaggi a forma di corona sui polsi, interpretati dalle autorità statunitensi come segni distintivi della gang criminale venezuelana Tren de Aragua. Tatuaggi che in Venezuela sono invece comunemente associati alle celebrazioni religiose del Giorno dei Re Magi. Hernández, fuggito originariamente dal Venezuela per evitare persecuzioni legate al suo orientamento sessuale e alle sue opinioni politiche, è stato dunque erroneamente identificato come una minaccia alla sicurezza e deportato. Attualmente, è detenuto in isolamento nel CECOT, senza contatti con la sua famiglia o i suoi avvocati.
Un altro immigrato venezuelano ha subito la stessa sorte: Widmer Josneyder Agelviz Sanguino, un rifugiato di 24 anni, nonostante fosse arrivato a Houston nel settembre 2024, regolarmente inserito in un programma di reinsediamento approvato dal governo statunitense. Come Hernández, Agelviz Sanguino è stato arrestato all'aeroporto internazionale George Bush dopo che un agente della dogana ha associato i suoi tatuaggi alla stessa gang venezuelana. Dal momento dell’arresto, la sua famiglia non ha avuto contatti diretti con lui, mentre il governo statunitense ha rifiutato di collaborare pienamente con gli avvocati che stanno cercando di riportarlo negli USA.
Un ennesimo caso analogo ai precedenti citati, riguarda un cittadino guatemalteco identificato solo come O.C.G.: un uomo gay, aveva richiesto asilo negli Stati Uniti dopo aver subito violenze omofobiche in Guatemala e in Messico. Nonostante un ordine del tribunale che impediva la sua deportazione, è stato erroneamente espulso verso il Messico, dove in precedenza era stato rapito e violentato. Successivamente, è stato trasferito in Guatemala, dove attualmente vive nascosto per timore di ulteriori persecuzioni. Un giudice federale ha ordinato all'amministrazione Trump di facilitare il suo ritorno negli Stati Uniti, sottolineando che la deportazione ha violato il giusto processo e gli obblighi internazionali contro il rimpatrio forzato verso Paesi dove è probabile la tortura. In questo caso – contrariamente ai precedenti – le autorità statunitensi hanno riconosciuto l’errore, attribuendolo a un problema informatico, riorganizzando il suo rientro.
Casi come quelli di Abrego García, Hernández, Agelviz Sanguino e O.C.G. mettono in luce le gravi carenze procedurali nelle attuali pratiche di deportazione, aggravate dai nuovi accordi bilaterali sostenuti dall’amministrazione Trump e promossi dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale guidato da Kristi Noem. Questi protocolli, siglati con governi autoritari come quello di Bukele in El Salvador, espongono anche rifugiati regolarmente presenti sul suolo statunitense a rimpatri forzati che, in molti casi, assumono le sembianze di veri e propri sequestri extragiudiziali. Una strategia che, sotto la retorica della sicurezza, alimenta il rischio sistemico di violazioni dei diritti umani e trasforma le politiche migratorie in strumenti di repressione, piuttosto che di giustizia, non aiutando la risoluzione dello stato di emergenza.