Didion, Bodgdanovich, Poitier e il Novecento che cade a pezzi
Con la scomparsa dei suoi pionieri, viene da chiedersi se il futuro dei cinema non sia proprio quello di diventare dei piccoli templi del passato in cui ricordare cosa siamo stati.
Non esiste giorno in cui la morte di uno scrittore o di una scrittrice, di un regista o di una regista, di un attore o di un’attrice non ci ricordi di come il Novecento stia lentamente morendo di vecchiaia.
Nel contempo, a seguito dei continui e numerosi necrologi, abbiamo preso l’abitudine di scambiarci vecchie foto, vecchie interviste, vecchi video, frame di vecchi film, domandandoci se è davvero esistita un’epoca in cui i fotografici erano dei fuoriclasse o se il merito di cotanta fotogenia fosse da attribuire a protagonisti prolifici nell’intelletto, unici nel talento e magnifici nell’aspetto.
È successo con Joan Didion, Lina Wertmuller e l’anniversario dei 75 anni di David Bowie e continua ancora con il ricordo di Peter Bogdanovich e Sidney Poitier, morti a distanza di un giorno l’uno dall’altro, tanto che l’Aero Theatre di Santa Monica, in California, non si è lasciato sfuggire l’occasione di commemorare entrambi dedicando l’insegna di sinistra a Poitier e quella di destra a Bogdanovich.
Viene da chiedersi se il futuro dei cinema, o della maggior parte, non sia proprio quello di diventare dei piccoli templi del passato in cui ricordare cosa siamo stati. Nonostante per Bogdanovich non esistessero vecchi film, ma solo film che abbiamo già visto e film che non abbiamo ancora visto, forse la verità è che esistono film che guarderemmo all’infinito e film destinati all’oblio.
Il cinema ha perso i suoi pionieri, cioè artisti in grado di arrivare dove altri non sono mai arrivati grazie al proprio talento, indipendentemente dal colore della pelle o dal genere. Lina Wertmuller è stata la prima regista a essere candidata agli Oscar e la prima regista a essere disprezzata esattamente come un uomo. Sidney Poitier è stato il primo attore nero a vincere un Oscar e non accidentalmente uno dei più grandi attori della storia del cinema.
Erano tempi in cui si lottava per azzerare le differenze, affinché il colore, il genere e la provenienza geografica non fossero elementi distintivi, ma di contorno, e affinché gli artisti venissero qualificati sulla base del loro talento. In Indovina chi viene a cena?, John Prentice – il personaggio interpretato da Poitier – dice al padre che ciò che li rende diversi, e quindi distanti, è il modo di guardare a sé stessi: John si considera solo un uomo, mentre il padre si vede ancora come un uomo di colore. Fa quasi impressione constatare come quelle stesse caratteristiche da cui per decenni abbiamo tentato di emanciparci, orientamento sessuale, genere, colore della pelle, nazionalità, oggi siano celebrate con orgoglio come ciò che definisce una persona e la presenta agli occhi del mondo.
In questo triplo carpiato c’è finita anche Hollywood, la stessa che sessant’anni fa organizzava le tavole rotonde sui diritti civili con Sidney Poitier, Harry Belafonte, James Baldwin, Marlon Brando, Charlton Heston e Joseph Mankiewicz, tutti insieme attorno a un tavolo a discutere del famoso discorso di Martin Luther King. Certo, era la stessa Hollywood del maccartismo e della caccia alle streghe, ma una Hollywood in cui la forza politica dei suoi interpreti era potente. Probabilmente è perché c’era ancora tanto da fare, tanto da raggiungere, tanto combattere, tanto da rivoluzionare. Oggi non c’è attore, regista o scrittore in grado di influenzare l’andamento politico di un Paese; in compenso abbiamo Presidenti degli Stati Uniti perfettamente integrati all’interno del settore dell’entertainment.
Di mattoni fondanti ed eredità ne è piena anche la carriera professionale di Peter Bogdanovich, l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova Hollywood. Bogdanovich non è Scorsese, non è De Palma, non è Coppola e non è Spielberg, nel senso che i suoi film sono meno popolari di quelli dei colleghi, ma la sua influenza è paragonabile a quella dei padri fondatori. Il cinema non lo ha solo mostrato attraverso le immagini, ma lo ha anche raccontato a parole, svelandoci uno dei più grandi enigmi della storia cinematografica, Orson Wells, da cui è stato persino incoronato. Unico a mettere le mani dentro la materia oscura e a completare l’ultimo film rimasto incompleto, The Other Side Of The Wind.
Nelle sue mille vite, Bogdanovich è stato un critico cinematografico, un regista, un attore, uno sceneggiatore, ha scoperto Cyrill Shepherd, interpretato l’unico personaggio sano di mente ne I Soprano, lo psicologo della Dottoressa Melfi, ha raccontato gli Stati Uniti e mai per uno secondo, persino dietro un carrello di un anonimo supermercato, si è fatto eclissare dalla magniloquenza della figura di Orson Wells. In uno dei suoi film, Bersagli, si è regalato la battuta che più di ogni altra descrive perfettamente il cinema del Novecento e la sua nostalgia: «Tutti i film più belli sono già stati fatti».
Le epoche si chiuderanno all’improvviso, ma i vecchi film saranno sempre lì a offrirci la frase perfetta.