DeSantis, Pence e il patto contro il "capitalismo woke"
Il fronte conservatore prende provvedimenti contro le proposte economiche dei liberal americani e lancia una crociata connaturata alle guerre culturali in atto nel Paese
La questione è di quelle scottanti. Il Wall Street Journal la paragona addirittura alla dura opposizione alla Critical Race Theory. Sì, perché la guerra agli investimenti ESG (acronimo di Environmental, Social, Governance) è diventata una priorità per i repubblicani e ha acceso un interessante dibattito su cosa sia il capitalismo, sul suo rapporto con la società e con la politica. Le voci conservatrici, con toni più o meno accesi, sostengono che i parametri ESG stiano distorcendo le dinamiche degli investimenti che dovrebbero fondarsi esclusivamente sulla massimizzazione del profitto. Anche perché l’unica responsabilità sociale delle imprese – secondo la lezione di Milton Friedman – consiste nell’aumentare i profitti.
L’investitore o la grande azienda non dovrebbero quindi guardare ad altri fattori, se non al ritorno dell’investimento. La posizione dei democratici e delle grandi aziende è invece legata allo stakeholder capitalism, definito sprezzantemente dai conservatori woke capitalism, che prevede logiche diverse, orientate anche alla sostenibilità sociale e ambientale. In questa prospettiva, gli investimenti devono favorire, tra le altre cose, la lotta al cambiamento climatico, l’utilizzo di risorse provenienti da fonti rinnovabili, l’inclusione e la diversità in ambito lavorativo e nei board aziendali. Un approccio, come detto, attaccato frontalmente dai Repubblicani secondo i quali l’approccio ESG sarebbe, di fatto, l’emanazione dell’agenda liberal e del social justice movement. Una politicizzazione di dinamiche che dovrebbero essere lasciate al mercato.
Tra i principali protagonisti del movimento anti ESG si segnalano il governatore della Florida, Ron DeSantis, l’ex vicepresidente Mike Pence e il governatore del Texas, Greg Abbott. DeSantis è forse colui che si è distinto con le scelte più dirompenti. Lo scorso marzo ha lanciato un’alleanza anti-ESG per proteggere l’America e gli americani da un movimento che starebbe minacciando la libertà. All’alleanza hanno aderito 19 stati: Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Idaho, Iowa, Mississippi, Missouri, Montana, Nebraska, New Hampshire, North Dakota, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Utah, West Virginia e Wyoming.
La dichiarazione congiunta dei governatori chiarisce gli obiettivi dell’alleanza: «La diffusione dei criteri ESG in America è una grave minaccia per l’economia americana, per la libertà economica e per il nostro stile di vita. Non è possibile concedere a un gruppo di fanatici woke la possibilità di scavalcare gli esiti delle urne e di imporre scelte ideologiche negli investimenti, nella corporate governance e nella vita di tutti i giorni». Come si può intuire, l’opposizione guidata da DeSantis è di natura politica e fa coincidere gli investimenti ESG con un’agenda politicamente progressista, o meglio woke.
Non a caso, in Florida il governatore ha fatto di tutto per mettere fuori gioco i criteri ESG nell’ambito degli investimenti statali e per i fondi pensionistici. Anche la linea di Mike Pence non è molto diversa da quella del Governatore della Florida. Per Pence quella degli ESG è una strategia studiata per imporre, tramite le grandi corporation, un’agenda radicale a livello sociale e ambientale. È anche una grave distorsione del mercato che, in questo modo, viene guidato da fattori esterni e spiccatamente politici.
In sintesi, per l’ex vicepresidente, gli investimenti ESG sarebbero una componente cruciale del woke capitalism che vede le grandi aziende prendere posizione su temi politicamente incandescenti quali l’orientamento sessuale, le questioni di genere e la critical race theory (CRT) che da tempo stanno infiammando le guerre culturali americane. Una critica più posata, anche se con argomenti non troppo diversi, è giunta da Vivek Ramaswamy che ha fondato una società di investimento anti-ESG, Strive, la cui mission è semplice: investire nel mercato azionario senza mischiare affari e politica. Secondo Ramaswamy i CEO dovrebbero stare fuori dall’agone politico, così come le aziende: ‘’gli americani – ha dichiarato – vogliono che ci siano delle divisioni tra il luogo di lavoro, i negozi dove fanno shopping, i luoghi dove investono e la politica’’.
Una posizione interessante, questa, che aiuta a inquadrare il dibattito sugli investimenti ESG che, a conti fatti, è una parte non secondaria dello scontro tra i conservatori e le big corporation sempre più attive nelle guerre culturali che stanno scuotendo gli Stati Uniti. Il fenomeno è piuttosto preoccupante perché vede una pericolosa commistione tra attori che dovrebbero operare in campi molto diversi.
In una visione liberale, le grandi aziende dovrebbero lavorare per fare profitto, fornendo servizi e prodotti di qualità senza immischiarsi nel dibattito politico; e la politica non dovrebbe intervenire nelle dinamiche di mercato, nelle scelte aziendali e nella natura degli investimenti. Invece, quello a cui stiamo assistendo, è un duro scontro ad alto tasso di politicizzazione tra aziende, politica e grandi società di investimento (BlackRock è nel mirino dei Repubblicani). Uno scontro in cui a uscire sconfitta è la libertà, sacrificata sull’altare dell’ideologia che spesso mira a orientare il mercato secondo logiche illiberali.
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