Democrazia armata: come l’America convive con la violenza
Storia e attualità di un Paese che non ha mai rinunciato all'uso delle armi da fuoco

Se prendessimo la storia degli Stati Uniti guardandola con gli occhi di un osservatore non occidentale, forse non capiremmo l’ossessione di molti studiosi a presentarla ammantata di eccezionalismo. Eppure, questo continua a permeare la narrazione all’interno del discorso pubblico americano, come un riflesso condizionato che resiste anche di fronte all’evidenza contraria. I giorni successivi al brutale e pubblico assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk ne sono stati una prova: molte voci hanno denunciato l’evento come una deviazione dalla norma, un atto “anti-americano”, incompatibile con i principi costituzionali della democrazia statunitense. Ma proprio questa reazione rivela una tensione profonda: mentre alcuni a destra, a cominciare dal presidente, hanno colto l’occasione per dipingere un Paese in guerra con sé stesso, demonizzando la radical left come nemico interno, politici, commentatori, personaggi tv continuano a raccontare l’esperimento americano come il culmine dell’evoluzione politica occidentale, incapace di prevedere un posto legittimo per la violenza. Questo nonostante dalle università e dagli ambienti culturali emergano voci critiche, che ne mettono in luce le contraddizioni e i lati oscuri — voci che, non a caso, finiscono spesso nel mirino di Trump e dei suoi alleati.
A un’analisi più attenta, i miti fondativi della nazione americana non restituiscono l’immagine di una city upon a hill, ma piuttosto proprio quella di una società plasmata dalla violenza. Lo storico Richard Slotkin ha teorizzato con grande efficacia questo paradigma: la frontiera, intesa non solo come spazio geografico ma come esperienza esistenziale, ha trasformato radicalmente i coloni europei. L’assenza di vincoli istituzionali, la presenza di popolazioni indigene percepite come ostili, la durezza dell’ambiente e la condizione di esilio permanente hanno alimentato una cultura della violenza come strumento di sopravvivenza e rigenerazione. D.H. Lawrence, nel suo sguardo letterario sull’America, descrive un processo di disintegrazione della vecchia coscienza europea e la nascita di una nuova anima americana: solitaria, armata, stoica, letale. Questa figura archetipica — il cacciatore, il soldato, il vigilante — diventa centrale nella narrazione nazionale, incarnata nella letteratura ottocentesca da autori come James Fenimore Cooper, Herman Melville e Mark Twain. Il vigilante, l’eroe solitario, il detective hardboiled rappresentano un ibrido tra giustiziere e mercenario, che agisce in un limbo morale. La violenza, in questo contesto, non è devianza ma rito di passaggio: è giustificata come necessaria per la salvezza individuale o collettiva e diventa simbolo di autonomia, giustizia, virilità, soprattutto in un contesto dove l’autorità è percepita come debole, corrotta o inefficace.
Slotkin ha portato l’analisi a un livello più profondo, notando come in realtà tutti i miti fondativi americani — dalla frontiera alla guerra civile, dalla rivoluzione alla “guerra giusta” — non siano semplici narrazioni storiche, ma vere e proprie strutture di senso che organizzano l’identità collettiva e giustificano l’azione politica. La violenza, in questi miti, non è un’anomalia ma una componente necessaria: è ciò che permette la rigenerazione, la redenzione, la difesa della civiltà. Nel XXI secolo, questi miti sono stati riattivati in risposta a crisi profonde: l’11 settembre, la Grande Recessione, l’elezione del primo presidente nero e ora la polarizzazione estrema tra due ordini politici che convivono nello stesso Stato-nazione.
Qui emerge una contraddizione fondativa: la Dichiarazione di indipendenza legittima l’insurrezione contro un potere oppressivo, sancendo il diritto-dovere di rovesciare i tiranni. Di pochi anni dopo, però, la Costituzione cerca di incanalare il conflitto dentro procedure regolate, costruendo un’arena democratica che delegittima la ribellione armata, confinata in un poco chiaro Secondo Emendamento. In questa tensione originaria — tra il mito rivoluzionario e il patto costituzionale — si radica l’ambiguità americana verso la violenza: da un lato celebrata come gesto fondativo, dall’altro minaccia all’ordine politico. Questa ambivalenza tra legittimazione della ribellione e difesa dell’ordine costituito riemerge ciclicamente, soprattutto nei momenti di crisi, come dimostra la retorica contemporanea del movimento MAGA, le cui frange estreme mobilitano il mito della Lost Cause e quello della Rivoluzione per giustificare l’uso della forza come mezzo di restaurazione, sia sotto forma di insurrezione (come il 6 gennaio 2021), sia come forma di repressione dell’opposizione, come nel dopo assassinio di Kirk. Alcune anime extraparlamentari di sinistra, invece, spesso proiettano verso l’esterno i propri istinti violenti, prendendo in prestito armamentari retorici di movimenti di lotta armata in contesti post-coloniali, oppure vedono nel riot il momento in cui si concretizza la liberazione.
La violenza come mezzo di lotta politica ha dopotutto accompagnato la storia americana fin dalle sue origini: durante la Rivoluzione, il movimento dei Sons of Liberty praticava il tarring and feathering — una punizione brutale inflitta ai lealisti, per cui li si ricopriva di catrame e piume, lasciandoli con cicatrici permanenti. Nella guerra civile interna tra rivoluzionari e lealisti, esecuzioni sommarie di sospetti traditori erano comuni, come nel caso dei sei lealisti impiccati senza processo in New Jersey nel 1779. Anche dopo l’indipendenza, la violenza rimase parte integrante del dibattito politico: il duello tra Aaron Burr e Alexander Hamilton nel 1804 o quello tra DeWitt Clinton e John Swartwout nel 1802 mostrano come lo scontro armato fosse considerato un mezzo legittimo per risolvere dispute politiche e personali. Henry Brockholst Livingston, futuro giudice della Corte Suprema, uccise James Jones in un duello nel 1798 senza che ciò danneggiasse la sua carriera.
Nel XIX secolo la produzione industriale e l’espansione imperiale verso ovest permisero una maggiore diffusione delle armi da fuoco, rendendo la violenza ancora più accessibile e simbolica. Le pistole e i fucili non erano solo strumenti di guerra o autodifesa, ma oggetti carichi di significato culturale: incarnavano l’autorità, la legittimità, il diritto di governare. La violenza non era una distorsione del sistema politico americano ma una sua espressione ritualizzata, capace di produrre nuovi confini e nuovi regimi. Più tardi, dagli assassinii dei presidenti (Lincoln nel 1865, Garfield nel 1881, McKinley nel 1901, Kennedy nel 1963), ai linciaggi nel Sud, fino alle sparatorie contro figure come Martin Luther King, Malcolm X, Robert Kennedy, e ai più recenti casi di Gabrielle Giffords nel 2011 e Melissa Hortman nel 2025, mostrano come la violenza sia stata spesso personalizzata: il nemico politico diventa il nemico assoluto, da eliminare. In un contesto mediatico, poi, in cui i social premiano con visibilità e introiti pubblicitari proprio il linguaggio più radicale, e in cui giovani solitari, non affiliati a nessun gruppo politico, possono ritrovarsi su percorsi di radicalizzazione costruiti da algoritmi e AI, questo aspetto si manifesta in modalità nuove e potenzialmente impossibili da contenere.
Come sottolinea Maurizio Valsania: “La politica americana ha da sempre dato un volto alla violenza. Più e più volte, il progresso storico è stato immaginato come dipendere dall’eliminazione o dalla distruzione di una singola figura – il rivale che diventa il nemico assoluto, spregevole.” Affermare che simili atti tradiscano “ciò che siamo” significa ignorare che gli Stati Uniti sono stati fondati — e a lungo sostenuti — proprio da questa forma di violenza politica.
C’è tuttavia una storia parallela che compensa questa narrazione. Alla cultura della violenza si è affiancata una potente tradizione di lotta politica non violenta, di ispirazione spesso religiosa, che ha plasmato a sua volta l’identità del Paese. I movimenti abolizionisti, i pacifisti quaccheri, le lotte delle suffragiste, il sindacalismo progressista e il movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King hanno dimostrato che la trasformazione sociale può passare anche da pratiche di disobbedienza civile, scioperi, marce, sit-in, strategie di massa fondate sull’etica della non-violenza. Non si tratta di una parentesi marginale: queste mobilitazioni hanno inciso profondamente sul tessuto politico e culturale americano, sfidando e in parte bilanciando l’egemonia del mito violento.
È questa convivenza — conflittuale e mai risolta — tra due tradizioni opposte che rende il caso statunitense così complesso. Da un lato, la persistenza del mito della rigenerazione violenta; dall’altro, la capacità ciclica di generare movimenti non violenti in grado di ampliare diritti e immaginare alternative.
La domanda che rimane aperta è se la società americana sia oggi capace di riconoscere entrambe le eredità senza rimuoverne nessuna. Continuare a considerare ogni nuovo atto di violenza come un’eccezione significa alimentare l’illusione di un’innocenza originaria che non è mai esistita. Forse il vero passo avanti sarebbe ammettere che la democrazia americana, per nascere e sopravvivere, ha sempre avuto bisogno di sangue — ma anche che la sua capacità di rigenerarsi non può prescindere dall’energia dei suoi movimenti non violenti. Come scrive James Baldwin: “Non tutto ciò che viene affrontato può essere cambiato, ma nulla può essere cambiato finché non viene affrontato”. Forse è tempo che l’America affronti davvero la propria storia di violenza, senza rimozioni né mitizzazioni.