Democratici: chi volete essere da grandi?
Al partito manca una visione persuasiva e attraente sul futuro, che parli a una pluralità di elettori. Per articolarla, deve prima risolvere le tensioni interne sulla sua identità.
Lo stesso sabato di inizio febbraio in cui Donald Trump annunciava l’imposizione di dazi a Canada e Messico, il Partito Democratico all’opposizione nominava il suo nuovo leader, un ruolo di natura principalmente organizzativa e amministrativa senza influenza sulle candidature politiche.
“Siamo impegnati in una lotta”, ha detto Ken Martin, selezionato dopo anni di militanza nella sezione del partito in Minnesota, nel discorso successivo alla sua nomina. “La lotta non è qui dentro. La lotta è là fuori. La lotta in questo momento è contro Donald Trump”.
Di primo acchito, sembra un obiettivo ragionevole. In realtà, è proprio la persistenza di questo tipo di retorica che spiega perché, come Jonathan Chait ha scritto su The Atlantic dopo aver assistito all’incontro che ha nominato Martin alla guida del partito, sembra che i democratici non abbiano imparato nulla dal fallimento elettorale di novembre 2024.
È dall’alba del 9 novembre 2016, nei postumi della disfatta di Hillary Clinton, che il Partito Democratico è impegnato in una battaglia costantemente formulata al negativo: lottare contro Trump. Sconfiggere l’ideologia MAGA. Debellare ciò che Trump rappresenta, perché non è l’America. Se il campo semantico dell’annullamento della parte avversaria è certamente pertinente e da sempre presente nel discorso politico, per i democratici dell’era Trump la retorica della sconfitta finora ha solo sconfitto se stessa.
Le elezioni – soprattutto quelle di portata storica, ormai una norma quadriennale negli Stati Uniti – non si vincono formulando un obiettivo in negativo, puramente reattivo e privo di autosufficienza: la sconfitta di altro (la risicata vittoria di Joe Biden nel 2020 è l’eccezione che ha confermato la regola, rimandando semplicemente il problema di altri quattro anni). Il cuore degli elettori si conquista con la capacità di immaginare una visione positiva per il Paese, a prescindere da chi c’è dall’altra parte. E sarà forse perché la storia ha bisogno di più tempo per ripetersi – di statisti come Barack Obama, in grado di ispirare l’elettorato e toccarne le corde più profonde del cuore, ne nasce uno ogni generazione – ma il Partito Democratico non è ancora stato in grado di immaginare un progetto allettante per il Paese, che vada oltre la sconfitta di Donald Trump.
Così ha commentato a Politico all’indomani delle elezioni di novembre Sarada Peri, assistente e scrittrice dei discorsi dello stesso Obama quando era presidente: “I democratici hanno abbozzato una visione del mondo limitata e puntinista. Strizza gli occhi e magari trovi qualcosa di coerente. Ma non è una visione chiara, un progetto chiaro, non solo per venire incontro a un elettorato che sta gridando aiuto, ma per ciò che l’America è e dovrebbe essere”.
Anche l’America di Trump è l’America, e anche l’America di Trump dovrebbe essere abbracciata, accolta e ascoltata all’interno di una visione persuasiva e attraente. Invece, è alienata da slogan come “sconfiggere Donald Trump” (per tanti, sinonimo di “sconfiggere noi americani che lo scegliamo”) e this is not who we are: gli Stati Uniti non sono quello che Donald Trump rappresenta, un’allusione frequente nella retorica democratica — palesemente inesatta.
È così che la distanza dall’elettorato aumenta, ed è notevole. A fine gennaio, il 57 per cento dei partecipanti a un sondaggio di Quinnipiac University ha dichiarato di avere un’opinione negativa del Partito Democratico – il risultato peggiore dal 2008. Un’altra rilevazione, condotta da New York Times e Ipsos a febbraio, ha evidenziato una grossa discrepanza tra i temi più importanti per gli elettori statunitensi in questo momento storico (economia, sanità, immigrazione) e i temi a cui, secondo gli elettori, i democratici danno invece priorità (aborto, politiche LGBTQIA+, cambiamento climatico).
A ostacolare la formulazione di una visione che abbracci l’elettorato nella sua interezza e varietà interviene l’oggettiva difficoltà, per il Partito Democratico, di consolidarsi attorno a un’identità coerente e coesa. La sinistra statunitense è essenzialmente sospesa tra due forze contrastanti. Da un lato, c’è chi sostiene che i democratici perdono a causa di una strategia intransigente sulla cosiddetta politica dell’identità: agli occhi degli elettori, il discorso sulle disuguaglianze sociali basate su razza, sesso, orientamento e identità sessuale ha acquisito priorità rispetto a riflessioni e interventi di natura più trasversale alla popolazione, soprattutto in campo economico. Dall’altro, c’è chi al contrario si lamenta che il partito non è abbastanza radicale – sul conflitto tra Hamas e Israele, per esempio, vedi il continuo appoggio militare a Israele accompagnato da una denuncia solo tiepida degli orrori perpetrati ai danni della comunità palestinese – e qualsiasi sforzo di avvicinare l’elettorato più moderato significherebbe abbandonare principi non negoziabili.
“L’identità dei democratici è confusa”, ha commentato Austin Sarat, professore di giurisprudenza e scienze politiche presso l’Amherst College, in Massachusetts, durante un’intervista telefonica. “Non riescono a capire chi vogliono essere: la sinistra populista alla Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, oppure in lotta per il centro, mostrandosi più moderati”.
Gli fa eco Colton Jonjak Plahn, vicepresidente per le comunicazioni esterne della sezione del Partito Democratico della Contea di Boulder, in Colorado: “C’è una vera tensione interna tra moderati e radicali. Lanciarci sassi a vicenda non funziona, serve solo a cedere il potere ai repubblicani”.
“La domanda per i democratici è una”, sostiene Sarat: “Chi volete essere da grandi?”.
In un sistema multipartitico come quello italiano, la tensione tra forze contrastanti afferenti alla stessa area politica si risolve con la frammentazione in tanti partiti diversi, tutti in grado di ambire a un minimo di rappresentazione parlamentare. Nel rigido bipartitismo statunitense, la questione è molto più complessa. Non sorprende che in una situazione di stallo sia più semplice ripiegare sulla narrazione anti-MAGA, sulla quale il consenso è assoluto.
Nel breve termine, secondo Sarat, la migliore cura in cui i democratici possono sperare è qualsiasi segno di crisi o cedimento nell’amministrazione Trump: se i prezzi rimanessero alti, se aumentasse la disoccupazione, se le promesse fatte in campagna elettorale non fossero mantenute. “Siamo in un’era in cui prevalgono i sentimenti negativi nei confronti del partito in carica”, ha detto il professore. È per questo che, nel contesto attuale, sarà più semplice per il Partito Democratico recuperare consensi grazie ai possibili fallimenti della presidenza Trump che non con un messaggio positivo per il Paese. “Il sentimento della gente è piuttosto negativo nei confronti degli Stati Uniti. Finché l’umore non cambia, non sarà facile dire loro di avere gioia e speranza”.
In un’ottica sostenibile nel lungo termine, però, la capacità del Partito Democratico di riacquistare pertinenza si gioca tutta nell’articolazione di una visione positiva oltre l’anti-trumpismo, il cui requisito imprescindibile è la costruzione di un’identità coesa. Risolvere la tensione tra le forze contrastanti in seno al partito non deve necessariamente richiedere un aut-aut tra sinistra moderata e sinistra radicale; potrebbe configurarsi invece come una ricerca della virtù che sta nel mezzo, il minimo comune denominatore che anima il cuore degli elettori.
“Dobbiamo creare spazio per una diversità di punti di vista”, sostiene Colton Jonjak Plahn dei Democratici della contea di Boulder. “Il compromesso non significa abbandonare i nostri principi. È possibile trovare un modo per andare avanti coinvolgendo un numero maggiore di persone. Ad esempio, invece di focalizzarci su certi temi in maniera puramente ideologica, cerchiamo di far capire alle persone in che modo questi temi hanno a che fare anche con la loro vita, e come è possibile migliorarla concretamente”.
Il giovane democratico afferma che è questo il metodo che vuole contribuire alle iniziative locali del partito (per cui ha iniziato a prestare servizio volontario nelle settimane post-elettorali) per parlare a più elettori, soprattutto tra la classe lavoratrice e nelle zone rurali del Colorado.
Jonjak Plahn ha 23 anni e tanto entusiasmo. Il Partito Democratico può diventare grande insieme a lui.