Out in the Deep South. Memoria, lotta e liberazione queer
Una chiacchierata con Joshua Burford, attivista e archivista dell'Università dell'Alabama che racconta la vita della comunità LGBTQ+ nel Profondo Sud degli Stati Uniti.
Archiviare e conservare la memoria come atto di ribellione e liberazione queer. Questo è il tema principale dell’intervista con Joshua Burford, educatore, storico, attivista e archivista dell’Università dell’Alabama. Nel 2013 curò da zero un progetto di un archivio di storia LGBTQ+ a Charlotte, North Carolina. Poi nel 2016, durante una conferenza nel suo stato natale, l’Alabama, un’attivista, Maigen Sullivan, gli propose di fare lo stesso per tutto il Sud Est degli Stati Uniti.
Cominciò così il cammino di Invisibile Histories, oggi diretto da entrambi, che da tempo è uscito dagli stretti confini dell’accademia. La storia che ci racconta è fatta di rivendicazione di un’identità che è queer ma anche del Sud, una storia di radicalismo politico, critica intersezionale e dialogo intergenerazionale. Il tutto con un obiettivo in mente: far emergere l’esperienza delle comunità queer nel Deep South, la sua unicità rispetto alle immagini spesso stereotipate delle comunità urbane, ma anche il posto che ha nella storia del paese.
Com’è cominciato il progetto? E che obiettivi vi siete posti?
È nato principalmente da questo desiderio di conoscere la mia storia. Io sono cresciuto in Alabama, avevo la stessa idea che tutti hanno riguardo la comunità LGBTQ+ americana. Urbana, concentrata in quattro o cinque grandi metropoli. Se aveva una storia locale, probabilmente non era molto diversa o interessante. E così "Invisible Histories" è nato per controbattere a questa idea, e per fare in modo di tenere accessibili localmente le nostre storie.
Quindi, invece di trasferirci a New York, possiamo tenerle qui in Alabama, e poi collaborare con altre organizzazioni a livello nazionale, dando loro accesso a queste collezioni, aiutando i nostri musei e archivi a integrare questa storia all’interno di quella del Sud. Perché dopotutto noi stiamo raccontando la storia del Sud.
E questa parte di paese è molto rurale. Allora le domande che ci siamo posti sono: cosa significa essere queer in una parte del paese che è molto rurale? Aiuta pensare a questa storia in termini urbano vs rurale? Come costruiamo un network di cui abbiamo bisogno per trovare il materiale? Quindi il primo obiettivo è stato trovare il materiale, il secondo trovare il posto giusto, il terzo trovare le persone che vogliono e hanno bisogno di accedervi.
Per me, non è abbastanza avere del materiale in archivio. E penso che la più grande frustrazione fin dall'inizio della mia carriera di archivista sia nata da questa nozione che ottenere materiale sia sufficiente. Ma non è sufficiente. Per me, avere qualcosa in una scatola non significa nulla, a meno che qualcuno non possa vederla e imparare da essa, comprenderla, darle nuova vita e concepirla in un modo diverso. E penso che questo sia vero anche per i manoscritti.
Se trovassimo un oggetto unico, una t-shirt del primissimo gay bar del Deep South, preferirei che quella venisse toccata da un milione di persone che metterla in una scatola per 100 anni, anche a rischio che vada in pezzi. Perché non serve a nulla accumulare. Anche pechè poi il nostro obiettivo finale è mettere tutto in mostra, vogliamo che la gente possa venire e imparare. E mi interessa poco insegnare la storia alla gente, voglio dare loro l'opportunità di trovarla da soli.
Come ha reagito la comunità a livello locale? Le persone vi mandano volentieri materiale?
La verità è che le persone queer non vogliono dare il loro materiale agli archivi. E lo scetticismo è motivato. Per alcuni è una questione di privacy. La maggior parte di noi ha vissuto in una piccola città per tutta la vita. Alcuni sono nervosi all'idea che il loro nome sia in un catalogo che include “gay” o “lesbiche” o “queer”. Ma per la maggior parte lo scetticismo è verso le istituzioni archivistiche e storiche. Sai, abbiamo visto la nostra storia ignorata, le nostre esperienze distrutte, e le nostre vite prese e poi messe da parte dove nessuno potesse mai vederle.
C'è un'università qui nello stato, che ha passato buona parte dello scorso decennio a riclassificare tutto ciò che era LGBTQ usando termini ambigui e oscuri, in pratica rendendoli totalmente invisibili. E quindi non è una cosa da poco chiedere a qualcuno di donarti la propria storia, non lo è. Proprio per questo, visto che io e la mia co-direttrice siamo entrambi queer e del Sud, possiamo creare quel rapporto di fiducia tra la comunità e l’archivio di cui abbiamo tutti bisogno.
Infatti, la mia esperienza con gli archivi è che molto materiale a tema LGBTQ è sepolto sotto anacronistici sistemi di catalogazione e denominazioni confuse. Come avete affrontato il problema?
Abbiamo dovuto fare ricerca alla vecchia maniera. All’inizio abbiamo messo insieme dei gruppi di studenti e gli abbiamo dato il compito di analizzare i cataloghi di ogni archivio dello stato dell'Alabama, grande o piccolo, universitario, di città, di contea. Le voci di catalogo più bizzarre e anacronistiche erano quelle riferite ai crimini sessuali.
Per alcuni, come la sodomia, dipendeva dal periodo di elaborazione (la legge che puniva “atti di sodomia”, invalidata da Lawrence v. Texas nel 2003, è stata ufficialmente abolita dal senato dell’Alabama nel 2019, n.d.r.). Inoltre, non so se è semplicemente un errore di catalogazione, ma digitare “LGBT” a volte può rendere inaccessibile i cataloghi in molti stati.
Quello che abbiamo deciso di fare è basarci su un progetto che lo Stato di Washington ha dato vita con alcune nazioni di Nativi Americani. Chiediamo a chi dona di aiutarci a descrivere le loro collezioni. E chiediamo tutti i dettagli. Molti, infatti, sono infastiditi da quanto siano limitate le descrizioni di materiale LGBTQ+ ovunque. Proprio per questo penso che sia importante che restituiamo quel potere descrittivo nelle mani delle persone per cui stiamo lavorando. Dopotutto è per questo che lo facciamo, in modo da non aver bisogno di un dottorato in storia per poter trovare materiale in archivio.
Stiamo cercando di dare ai membri della comunità un ruolo centrale. Perché è il loro materiale. Ogni scatola, ogni faldone per me esiste affinché le persone possano trovare la loro storia. E concentrandomi su di loro, non escludo allo stesso un pubblico etero e cis. È il lavoro e l'enfasi a spostarsi e focalizzarsi su una comunità un tempo invisibile. Stiamo mettendo insieme una narrazione in un modo mai tentato prima.
Da come la descrivete, questa non è una semplice operazione d’archivio e “storica”, è un’iniziativa di carattere politico.
Assolutamente. Sai, noi diciamo sempre che archiviare è resistenza. È un atto di ribellione dire che non solo non saremo ignorati o resi invisibili da persone fuori dalla comunità, ma vi dimostreremo che siamo qui da tempo, siamo parte della storia di questo paese e del Sud. L'atto stesso di esistere, di sopravvivere e prosperare in questi luoghi, per me è resistenza politica. Inoltre, se chiedi a chiunque di descrivere una persona LGBTQ+ americana ti parlerà di qualcuno che vive a New York o San Francisco, probabilmente bianco, benestante, abile e che vive in affascinanti spazi urbani.
Dunque, per me, il fatto di avere accesso a una contro-narrazione anche a questo è un atto di resistenza politica. Parlando di Stonewall stesso, qui si organizzavano Pride già due anni dopo i riot, non 15. L’Alabama aveva un LGBT Center attivo nel 1978. Avevamo attivisti del Alliance and Gay Liberation Front già nel 1971. Gran parte anche della nostra storia locale è politica, si è evoluta nel corso degli anni dalla lotta contro l'HIV e le sodomy laws a quella per la casa e, ora, per l’assistenza alle persone queer anziane. Vogliamo ispirare la prossima generazione. Voglio dire, è quello che penso faccia la resistenza politica, fornire ai giovani una traccia, così da permettere loro di immaginare quale sarà la prossima fase della nostra liberazione.
Che tipo di materiale state trovando?
Beh, in primo luogo, molto materiale è più vecchio di quanto pensassimo. La cosa più antica che abbiamo nella collezione è del 1912. Abbiamo trovato una serie di fotografie degli anni '40 di due donne che si sono incontrate in servizio durante la Seconda guerra mondiale, si sono poi ritrovate e hanno divorziato i loro mariti per stare insieme. In più c’è un mix di documenti organizzativi di pride e manifestazioni, minute di riunioni politiche, fotografie, volantini, manifesti, e poi carte molto personali.
Abbiamo appena finito di digitalizzare una serie di lettere d'amore tra queste due donne di Charlotte negli anni ‘60. Sono bellissime, intense, commoventi. E poi ci sono anche cose molto strane come pellicole degli anni '60 e '70, o VHS che stiamo digitalizzando. Ci sono poi striscioni, magliette, abiti drag, costumi, scarpe, parrucche, anelli… Adoro soprattutto gli oggetti che abbiamo trovato, abbiamo la disco ball del primo gay bar di Tuscaloosa, Alabama. È una cosa così piccola ma mi piace davvero tanto. Mi piace pensare a quante persone ci abbiamo ballato sotto, quanti incontri siano avvenuti lì, quante sfilate ballroom.
Ballroom? In Alabama?
Assolutamente. Per esempio, la scena ballroom di Birmingham ha preso vita proprio nel mezzo del movimento per i diritti civili negli anni '60. E quindi per me è interessante guardare uno show come Pose su Netflix perché era quasi esattamente quello che stava succedendo qui decenni prima, quando persone queer afroamericane e ispanoamericane si proteggevano a vicenda creando comunità. C’era tutto, le houses, le sfilate a punti. E poi la scena si è evoluta nel corso degli anni.
Non mi spingerei a dire che sia mainstream ora come a New York, ma è sicuramente un’esperienza conosciuta. C’era ballroom a Jackson, Birmingham, Atlanta, nel Florida Panhandle.
In generale, dal materiale che state raccogliendo, emerge un tratto comune che differenzia l’esperienza della comunità nel Deep South dalle altre?
Per me è difficile generalizzare per tutto il Sud, perché geograficamente e culturalmente è così diverso. Stiamo parlando di Alabama, Mississippi, Georgia. La New Orleans queer è molto diversa dall'Arkansas queer. Tuttavia, abbiamo scoperto un elemento comunque.
Se si pensa a New York o Chicago negli anni '60, la gente stava creando comunità nel West Village, a Boys Town, e l'idea era di mettere insieme un intero gruppo di persone fuggite dalle zone rurali e suburbane per trovargli un rifugio e costruire una comunità da zero.
Nel Sud invece la gente rimasta ha cercato di fare comunità proprio dove viveva. Per esempio, se si guarda alla storia del Mississippi, negli anni '70 c’era molto radicalismo anche in questo senso. Molti non lasciarono Jackson, Mississippi per unirsi ad una comunità LGBTQ altrove. Rimasero in città con la gente che conoscevano e costruirono lì aree di resistenza.
Così, invece di spostare l'intera comunità partendo da zero, hanno iniziato esattamente dove erano. Questo avvenne in tutto il Sud ed ebbe anche l’effetto di rendere l nostra comunità LGBTQ+ molto variegate al proprio interno, anche a livello razziale. Con questo non voglio dire che le relazioni interrazziali fossero rosee. Ma rispecchiavamo la ricchezza di identità etniche e culturali del Sud. Ancora oggi, ci sono più persone queer nel Sud che in qualsiasi altra parte degli Stati Uniti. E questo è stato vero fin dall'inizio.
In più, la narrazione della fuga verso le metropoli costiere non tiene conto di chi tornò. Abbiamo una donatrice di Charlotte, North Carolina, Tonda Taylor. Era presente durante le rivolte di Stonewall. Era lì quella notte. E poi ha fatto suo quel momento di resistenza, è andata agli incontri, è diventata esperta di organizzazione militante, e ha portato la sua esperienza in North Carolina. E questo accadde in ogni stato in cui siamo stati finora.
Quindi l'esperienza queer del Sud è molto particolare, nel senso che l’esperienza radicale nelle zone urbane si è tramutata in militanza costante anche in aree più rurali. E abbiamo trovato un modo di prosperare in quelle comunità, perché noi abbiamo sempre creduto fermamente che avessimo e abbiamo il diritto di esistere in questi luoghi. E poi un'altra cosa, c'è molta povertà qui. Si è sviluppato un confronto su questioni di classe nel Sud che non avviene in altri posti, perché molte persone queer non sono middle-class o benestanti. Sono della classe operaia, sono povere, a volte entrambi. Eppure, hanno creato queste comunità con legami molto forti che tentano e riescono a sopravvivere.
E come vedete il rapporto tra l’identità queer e quella del Sud? Si sovrappongono o vivono in continua opposizione?
Noi siamo convinti che il Sud sia molto queer. E in parte è a causa della diversità geografica, culturale ed economica che abbiamo, che non esiste in altre parti degli Stati Uniti.
Il Sud è uno dei pochi posti in cui ci sono ancora identità che si intersecano, dal cibo alla musica alla religione, dove convivono rimasugli tossici della cultura schiavista del 1700, e idee molto moderne, come la resistenza politica, e la queerness, tutti nella stessa società. Penso spesso alle storie che mi sono state raccontate da bambino, i miei genitori sono cresciuti entrambi molto poveri. E, sai, andavano in scuole pubbliche non segregate dove bambini bianchi e neri vivevano insieme. E quindi vissero un'esperienza riguardo i diritti civili molto diversa rispetto a quella narrata dai media. Si consideravano tutti nella stessa barca perché tutti gli alunni della scuola erano poveri. Dopotutto solo i bianchi benestanti potevano permettersi il “lusso” di mandare figli in scuole private segregate. E questo influenzò anche la vita di gran parte della comunità LGBTQ+. Creammo un mix&match di identità intersezionali che esiste in pochi altri posti.
Quando si parla del Sud si pensa subito ad un posto molto conservatore, ma è un conservatorismo particolare, molte volte solo economico. Poi c’è sicuramente anche quello razziale e religioso. Riguardo proprio quest’ultimo punto, sinceramente non credo che il Sud sia più religioso di altre parti del paese. E non credo che stiamo vivendo più discriminazione rispetto ad altre aree.
L’esperienza queer qui è semplicemente diversa. Abbiamo più chiese che negozi di alimentari? Possibile. Ma sai, delle 16 chiese del mio quartiere, sette sono LGBTQ-friendly. Quindi descrivere il Sud come “conservatore” è semplicistico. Si trovano tante chiese e organizzazioni politiche friendly quante se ne trovano a Chicago o a New York.
Forse la differenza è che abbiamo dovuto lottare un po' di più, ma forse è per questo che siamo così forti. Voglio dire, io mi considero un radicale. E la mia posizione politica è radicale proprio perché vengo dal Sud, perché sono cresciuto con altri come me, come mio zio che era gay, e i suoi amici positivi all'HIV. Loro si sono radicalizzati molto presto, perché che altra scelta avevano? Stavano morendo, e così ho capito che non sono l'unico.
C'è un sacco di radicalismo politico qui, siamo continuamente in salita, rischiando ma vincendo. Stiamo vincendo ogni volta.
Quindi la lotta per i diritti e la liberazione della comunità passa per il rapporto e il dialogo con le organizzazioni religiose?
Qui è sicuramente così. Gran parte di noi ha frequentato nel tempo chiese di diverse denominazioni. Quindi ha senso che data l'opportunità di frequentare una congregazione che non ha problemi con la tua identità, queste persone cerchino di non dover rinunciare a Dio solo perché sono queer.
La Metropolitan Community Church, che venne creata proprio incentrando il messaggio sull'identità queer, arrivò negli anni '70 nel profondo Sud dell'Alabama, a Charlotte, ad Atlanta, a Nashville, in Arkansas, in Kentucky. Era un’opportunità per gente disaffezionata che era stata cattolica, metodista e battista, per dare loro un luogo di culto. Troy Perry, il fondatore, era dell’Alabama. Prese qualche spunto dalla sua educazione conservatrice e creò questa chiesa per persone come lui.
Poi, quando poco dopo è arrivato il momento di organizzarsi politicamente nel Sud, istituzioni religiose di ogni tipo, cattoliche, protestanti, musulmane, ebree, wicca, ci hanno messo a disposizione i loro spazi, perché molte congregazioni hanno capito che il loro messaggio principale è l'amare il prossimo.
Le chiese anti-LGBTQ naturalmente sono le più presenti sui media e nella narrazione storica, perché sono le più rumorose. Ma per ognuna di loro, ci sono tre congregazioni che stanno intraprendendo un percorso per rendere i loro spazi più friendly per le persone queer. Solo nel mio quartiere, ci sono tre congregazioni diverse, presbiteriana, metodista e una non affiliata, tutte molto chiare con me.
Se volessi andare in chiesa, mi hanno detto, potrei farlo ed essere accettato come gay e in una relazione poliamorosa. E ce ne sono ovunque, come la Chiesa battista di Charlotte Myers Park, diventata la prima congregazione battista queer-affirming in North Carolina.
Ci hanno messo un decennio, ma alla fine ci sono riusciti e penso che la cosa dovrebbe essere celebrata. Tuttavia, penso che il vero problema con la religione venga dal fatto che molte chiese dicono di accettarci, portando le nostre bandiere ed essendo noi stessi, ma soltanto fino ad un certo punto, perché quando iniziamo a parlare di sesso, le persone si sentono davvero a disagio.
In generale però non penso che noi siamo in guerra con la religione, lo siamo sicuramente con i fondamentalisti, e i conservatori, assolutamente. Perché non credono che esistiamo, pensano che siamo mostri o altro, ma non siamo in guerra con tutti.
Parlando invece del dialogo intergenerazionale all’interno della comunità, quali problemi vi siete trovati ad affrontare?
Credo che ci sia sicuramente un malinteso da parte di entrambe le parti all'interno della comunità. Le persone queer anziane non capiscono come i giovani si muovono nel mondo, perché credono che per loro le cose siano molto più facili.
I giovani invece non hanno accesso facilmente a persone queer più anziane. Quindi non possono immaginarsi una vita da sessantenni o settantenni. È così difficile colmare quel divario. Le persone giovani sono costrette in queste piccole bolle. E non ci sono anziani lì, quindi c'è questa netta separazione culturale tra i due gruppi.
Anche se ho avuto modo di lavorare con un sacco di persone anziane, sono ancora sorpreso quando incontro una donna trans di 70 anni. E questo anche perché abbiamo perso nel tempo tantissime persone, a causa dell’epidemia di AIDS, del suicidio, per l'alcolismo e l'abuso di droga, per l'omofobia interiorizzata. Ma nonostante questo c'è curiosità. Quando mettiamo insieme questi due gruppi il risultato è incredibile.
Organizzammo un evento l'ultimo anno che ero a Charlotte, nel 2017, una tavola rotonda per over 65 e under 18. Si facevano domande e il pubblico assisteva. E vedendo quei due gruppi confrontarsi è stato magico. I giovani vogliono scoprire come sia la vita di una persona queer avanti con l’età e le persone anziane dicono "guarda, il lavoro che abbiamo fatto, quando avevamo la tua età, è servito a permettervi di vivere pienamente la vostra identità". Ma fortunatamente il dialogo va oltre il dovere qualcosa a qualcuno.
Possiamo ispirarci a vicenda, ed è il motivo per cui tanti ragazzi e ragazze più giovani vogliono lavorare con noi. Perché sono affamati di quella storia. Quindi dobbiamo assolutamente essere in grado di preservare questa memoria. Perché se non lo facciamo, scompare per sempre. È quello a cui penso la sera, quando vado a letto, come fare a valorizzare quella collezione, quel carteggio, quel racconto, perché c'è qualcuno che ne ha bisogno. E le persone protagoniste di queste storie hanno bisogno di raccontarle.
Durante una conversazione con un professore della New York University nel 2017, lui mi disse che i giovani vivono più a loro agio nella società capitalista rispetto al passato, con tutte queste aziende che si dichiarano “allies”, almeno quando fanno pubblicità in Occidente. Sei d’accordo, la gioventù queer sta perdendo l’intersezionalità radicale del passato?
Forse è difficile perdere qualcosa che non si è mai avuto. A parte gli scherzi, quando insegno storia, la cosa di cui i miei studenti sono più entusiasti è il radicalismo dei movimenti del passato, perché non sanno di poter essere radicali anche loro.
La mia paura è che stiano perdendo l'opportunità di essere radicali, solo perché non sanno di avere quell’opzione. La cosa che trovo interessante in questo momento è che anche se il coming out avviene sempre più spesso e teoricamente le cose sono migliori ora, meglio di quanto non fossero in passato, le comunità in cui i giovani stanno facendo coming out sono molto simili a quelle degli anni '70 e '80.
I centri LGBT stanno chiudendo, i bar stanno chiudendo. Non siamo più politicamente attivi come una volta, quindi penso che se c'è mai stato un momento in cui sia necessario imparare dal proprio passato radicale, beh, è questo. E non gli stiamo facendo un favore trattandoli come bambini. Dopotutto il futuro è sui social media, e non abbiamo esperti di social media di 70 anni, ma di 18 anni. Abbiamo bisogno di loro al tavolo come pari.
Ora dammi 20 minuti e ti radicalizzo chiunque perché quando si tratta di essere queer nel Sud o ovunque c'è un sacco per cui sentirsi incazzati.
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