Quelli che Lui amava: una storia del cristianesimo queer americano
La storia del cristianesimo LGBTQ+ friendly ci racconta un lato poco noto della storia sociale americana che parla di paura, orgoglio e fede.
Il 6 Ottobre 1968 dodici persone si riunirono nel salotto di una shotgun house, le classiche strette e lunghe casette di fine ottocento con le stanze disposte in fila, di Huntington Park a Los Angeles. La casa era di un certo Troy Perry, un ex pastore Pentecostale espulso dalla sua congregazione in Illinois perché gay.
Il ’68 fu un anno di forte mobilitazione per la comunità LGBT di Los Angeles di fronte ai continui raid della polizia subiti dal The Patch e il Black Cat, tra i più frequentati bar gay della città. Proprio durante uno di questi raid Carlos, un amico di Perry, fu arrestato senza motivo e tenuto in cella per una notte. All’uscita, in lacrime, gli disse “a Dio non importa nulla di noi”. Sull’orlo del suicidio solo pochi mesi prima per una storia d’amore finita male, Perry decise che quella frase non poteva essere vera. L’avrebbe provato creando una sua chiesa, non una che semplicemente accogliesse le persone della comunità LGBT, ma una costruita proprio intorno alla loro identità.
Quelle dodici persone nel suo salotto erano lì per la prima messa celebrata dalla nuova congregazione, la Metropolitan Community Church. Per l’occasione Perry aveva chiesto ad un suo amico frequentatore del The Patch, redattore di The Advocate, di poter mettere un annuncio sul giornale. Usando un tavolino da caffè come altare, dei paramenti in prestito e la sua bibbia, amministrò anche la comunione. Entro fine anno i fedeli arrivarono a 300.
Il coraggio di togliersi la maschera e uscire fuori
La predicazione di Perry si allontanava molto dai tentativi di creare chiese friendly avvenuti nei decenni precedenti all’interno di quello che veniva chiamato Homophile Movement. Era il 1946 quando un gruppo di fedeli della Chiesa Cattolica del Sacro Cuore di Atlanta, in seguito all’espulsione di un seminarista, George Hyde, che aveva confessato di essere omosessuale, decisero di formare una loro congregazione, la Chiesa Cattolica Eucaristica. Non era una cosa nuova, il cattolicesimo indipendente è un fenomeno molto diffuso negli Stati Uniti, a partire dai movimenti scismatici di fine ottocento.
La chiesa di Hyde rimaneva quindi cattolica nella dottrina e nella pratica ma, usando canali nascosti, luoghi di preghiera conosciuti solo dai fedeli, linguaggio vago, servì come luogo di rifugio per tanti alla ricerca di un modo di conciliare la propria identità e la fede. Questa e altre esperienze servirono a cementare e costruire il fondamento teologico di ciò che venne dopo, soprattutto post-Stonewall.
In quel mondo la comunità non si accontentava di rifugi nascosti e messaggi in codice. Di fronte ad una società ipocrita che imponeva la segretezza, bisognava avere il coraggio di togliersi la maschera e uscire fuori. In questo contesto, che portò al Gay Liberation Movement e al superamento ideologico degli sforzi politici dell’Homophile Movement, la chiesa di Perry trovo un’audience pronta a riscrivere la teologia in chiave inclusiva, apertamente e senza ipocrisia. I pastori della MCC, che nel giro di pochi anni crearono comunità in tutto il paese, predicavano una forma di ecumenismo di stampo pentecostale ma usando gli idiomi culturali delle comunità queer di fine anni ’60.
Solo pochi mesi dopo la fondazione della MCC un frate agostiniano, Patrick X. Nidorf, fondava Dignity, un gruppo di preghiera per cattolici gay, e cominciò a tenere messa in varie sedi tra Los Angeles e San Diego. In risposta molte chiese cattoliche e ortodosse indipendenti cominciarono a dichiararsi friendly, come la Church of the Beloved Disciple di New York, che sul suo bolletino domenicale del 19 Luglio 1971 proclamò “Gay People this is Your Church”. Da allora c’è stata un’esplosione del numero di chiese cosiddette queer affirming.
L’esplosione delle chiese queer affirming
All’interno di quella che Edward Fiske sul New York Times chiamò “l’ala ecclesiale della rivoluzione lavanda”, per il colore simbolo degli attivisti del Gay Liberation Movement, “trovano rifugio gli omosessuali che nelle proprie chiese di origine si sentono come i primi cristiani nel Colosseo”.
Ciò naturalmente non lasciò indifferenti le denominazioni tradizionali, soprattutto dopo che nel 1977 Midge Costanza, assistente per i rapporti col pubblico e advisor del presidente Jimmy Carter, incontrò alla Casa Bianca i leader della National Gay Task Force, tra cui proprio Troy Perry. Questo mentre si raggiungeva l’apice della campagna omofoba “Save our Children” di Anita Bryant. Anche in reazione allo spostamento all’interno del partito democratico di istanze delle minoranze sessuali, la Chiesa Cattolica e le congregazioni evangeliche nei decenni successivi avrebbero preso radicalmente possesso del dibattito morale all’interno del conservatorismo americano.
Tra le tante violente prese di posizione di quel mondo trovavano tuttavia spazio anche critiche dottrinali che facevano emergere il problema di fondo del cristianesimo queer. I sociologi evangelisti Ronald Enroth e Gerald Jamison scrissero un report sul fenomeno dichiarando che le chiese affirming erano solo un tentativo goffo, con tanto di paramenti e sacramenti, di fabbricare dal nulla una legittimità morale per i comportamenti sessuali e sociali della comunità LGBT. Un contemporaneo articolo su Time Magazine facevo eco a queste osservazioni, sottolineando la contraddizione di fondo tra il messaggio biblico e la liberazione queer.
La comunità rispose. Nelle newsletter di Dignity infatti i pastori riaffermarono l'omosessualità come un aspetto dell'identità umana che era accettabile per Dio, e sostenevano che l'orientamento omosessuale era irrilevante per le questioni centrali della fede cristiana, così come per razza, genere, etnia, o qualsiasi altra differenza.
Ciò che è certo è che la sete di spiritualità e il bisogno di religiosità è cresciuto da allora nella parte di comunità LGBTQ+ americana che ha vissuto la “rivoluzione lavanda” e che ha testimoniato il ruolo cruciale delle chiese queer affirming nella lotta alla pandemia di AIDS. Un rapporto di UCLA uscito l’anno scorso racconta di un 47% di adulti moderatamente o molto religiosi, questi ultimi membri attivi di congregazioni e chiese, ma anche sinagoghe, moschee. La stragrande maggioranza di rispondenti si dice cristiani, con un 5% che si divide a metà tra ebrei e musulmani. Non sorprende però che questi possano essere trovati soprattutto nel Deep South, tra le persone con più di 50 anni e Afroamericane, il segmento demografico più religioso del paese.
Di fronte ad una generale diminuzione dell’attiva partecipazione alla vita religiosa da parte delle nuove generazioni, la continua chiusura da parte delle chiese tradizionali rende il lavoro di quelle queer affirming ancora più duro. Questo anche per il continuo ritorno di un dibattito mai terminato al loro interno. Se nella prima fase il passo fatto da MCC e altre denominazioni fu quello di sostituire la “tolerance” con la piena integrazione dell’identità queer nel piano divino, oggi ci si confronta con il rapporto tra la fede e le istanze dell’attivismo politico.
Mentre ognuna di queste comunità proclama la piena integrazione della queerness nella creazione, il confronto con le implicazioni pratiche di questo assunto è problematico. Per alcuni cristiani queer le loro credenze religiose rafforzano il loro coinvolgimento nella lotta per i diritti, mentre altri insistono sul fatto che le chiese siano un luogo di culto, non di attività politica. Anzi, un certo numero di congregazioni, anche dichiaratamente friendly o affirming, sostiene che i cristiani non dovrebbero condonare o sostenere il presunto stile di vita queer.
Al loro interno si dibatte ancora su come essere cristiani e parte della comunità LGBTQ. Le coppie dello stesso sesso dovrebbero poter accedere a matrimoni religiosi? Il cristianesimo dovrebbe permettere di avere rapporti sessuali con più di un partner? È possibile radicare l'attivismo per i diritti nella morale cristiana?
All’ultima domanda Troy Perry risponderebbe che non solo è possibile, ma necessario. Ai suoi rally in passato si potevano leggere cartelli come “The Lord Is My Shepherd and He Knows I’m Gay” e “Oral Can Be Moral”. Ma in un periodo storico in cui tutto è messo in discussione, incluso la spiritualità, e le forme di espressione di questa si moltiplicano soprattutto al di fuori della formalità delle denominazioni, forse non basta. Il destino delle congregazioni queer affirming rimane legato a quello delle chiese da cui in origine fuggirono.
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