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Crimini e misfatti: un sistema a pezzi nelle serie tv
Le American Crime Story diventano lenti deformate nella quale specchiarsi con insistenza nella speranza di scrutare nella bilancia della giustizia quel porto sicuro che spesso ci immaginiamo.
Il più intrigante legal drama degli ultimi anni, se escludiamo qualunque cosa tocchi Aaron Sorkin, da Harper Lee al monologo di Jack Nicholson in Codice d’Onore, lo ha probabilmente scritto Andrew Jarecki. Una parabola che va dalla fiction ai documentari: ne è un esempio il film dedicato al matrimonio tra l’ex ereditiere e imprenditore Robert Durst e Kathleen McCormack, scomparsa nel 1982, mai ritrovata e creduta uccisa proprio dal marito, e il documentario dedicato proprio allo stesso Durst.
Un documentario a puntate che segue una vicenda appassionante fino alle aule di tribunale e che sarebbe potuta andare avanti ancora un altro paio di anni se non fosse per l’ultimo coup de théâtre, la morte di Durst pochi mesi dopo la condanna all’ergastolo per l’omicidio dell’amica Susan Berman e la decisione di un gran giurì di New York di rinviarlo a giudizio anche per il presunto assassinio della moglie. Se Durst, già avvezzo ad arresti, omicidi e latitanze, è finito di nuovo in manette e a processo per gli unici due crimini che aveva sempre scampato, lo deve alla minuziosa opera di indagine di Jarecki in The Jinx e all’idea, poi rivelatasi previdente, di non togliere il microfono a Durst quando durante l’intervista concessa per il documentario chiede di andare in bagno e si lascia andare a commenti diventati in seguito fondamentali per la ripresa delle indagini e la successiva condanna: «Cosa diavolo ho fatto? Li ho uccisi tutti, ovviamente».
Anni di Law & Order, di avvocati brillanti con vite private a pezzi, di Alicia Florrick, di Olivia Pope, gladiatori in suits e cappelli bianchi, di Ally McBeal, di Saul Goodman, di How to Get Away with Murder e i salti dello squalo, di Perry Mason, Colombo e poliziotti supereroi non hanno placato quel sentimento di inquietudine e sgomento che ci pervade l’anima ogni volta che ci rendiamo conto che persino la macchina della legge, come qualsiasi altra macchina gestita da esseri umani, è piena di inciampi, errori, pregiudizi e senni di poi, tanto che anche quelli che si occupano di serie televisive, soprattutto dopo i successi di The Jinx e Making a Murder, si sono resi conto di come il muscolo del garantismo debba essere costantemente allenato, sia che si tratti di Robert Durst, condannato all’ergastolo da malato di cancro in fin di vita e rinviato nuovamente a giudizio pochi mesi dopo, sia che si tratti di Steven Avery o Brendan Dassey, a cui da anni viene negata la possibilità di riesaminare il caso e dimostrare la propria innocenza.
Se la vicenda Durst è ormai un capitolo chiuso, quella di Avery e del nipote è invece destinata a proseguire; e se non dentro l’aula di un tribunale, dal momento che la Corte Suprema del Wisconsin ha negato l’udienza probatoria, ancora una volta all’interno del catalogo di Netflix che ha già annunciato la terza stagione di Making a Murder, la quale sarà probabilmente incentrata sul lavoro di Kathleen Zellner, l’avvocato, esperta in revisione delle condanne, che da alcuni anni sta assistendo Steven Avery.
Il problema è vecchio tanto quanto il sistema giudiziario, ma adesso ha anche una categoria dedicata sulla piattaforma streaming. Troviamo The Innocence Files, la docuserie dedicata ai casi di ingiusta detenzione, The Confession Tapes, un’altra docuserie che si occupa dei condannati per omicidio che definiscono le proprie confessioni come estorte, involontarie o farse, Unbelievable, una miniserie in otto puntata ispirata a fatti realmente accaduti di Marie, un’adolescente accusata di aver mentito sulla violenza sessuale subita, Time: The Talief Browder Story, la serie che ripercorre il caso di Kalief Browder, un adolescente nero del Bronx che ha scontato tre anni in carcere senza essere condannato, e When They See Us, la miniserie creata e diretta da Ava DuVernay dedicata al caso dei cinque adolescenti neri di Central Park, condannati ingiustamente per stupro e successivamente risarciti dallo Stato di New York con quasi quattro milioni di dollari. La serie è arrivata agli Emmy insieme ai protagonisti della vicenda proprio durante il mandato Trump, che nel 1989 comprò una pagina sul The New York Times in cui chiedeva il ripristino della pena di morte per i cinque ragazzini.
Mostrare le falle e le storture del sistema giudiziario e del lavoro investigativo e di polizia è diventato un modo per raccontare un Paese, soprattutto dopo casi come quello di George Floyd, e per pretendere e richiamare attenzione su vicende che forse sarebbero dimenticate. In Italia il successo del film dedicato a Stefano Cucchi, anche questo distribuito su Netflix, ha fatto da cassa di risonanza al processo contro gli agenti, cambiandone probabilmente la percezione, tanto da essere seguito dalla prima confessione di pestaggio da parte di uno dei poliziotti presenti. Negli Stati Uniti Aaron Sorkin si è occupato (per Neflix, che domande) del processo ai Chicago Seven, un gruppo di attivisti contro la Guerra in Vietnam accusati di aver cospirato al fine di causare uno scontro tra i manifestanti e la Guardia Nazionale in occasione delle proteste durante la convention del Partito Democratico; l’Abc ha romanzato la vicenda di Isaac Wright Jr, rinchiuso in un carcere di sicurezza per sette anni dal 1989 per essere stato erroneamente identificato come il capo di una rete di narcotraffico nel New Jersey, mentre Showtime ha prodotto Your Honor, una serie televisiva su quanto sia facile corrompere anche il più irreprensibile dei giudici.
Ryan Murphy è stato invece più didascalico producendo una serie di miniserie tv raggruppate sotto al titolo di American Crime Story, allo scopo raccontare, anche in questo caso, i crimini che hanno scandito la storia degli Stati Uniti per parlare di altro, un matrimonio, un’industria, un’epoca. Dopo il processo a OJ Simpson, l’assassinio di Gianni Versace e l’impeachment di Bill Clinton, la quarta stagione andrà indietro fino agli anni Settanta e si occuperà dello Studio54, il club notturno di Steve Rubell e Ian Schrager che nel 1977 divenne il punto di riferimento di Manhattan, prima che i due fossero condannati per frode fiscale.
Poiché è tutto un rovistare nel passato e guardarci dentro per capire cosa siamo diventati, queste storie, come quelle che arriveranno, hanno ormai preso la forma di lenti deformate nella quale specchiarsi con insistenza nella speranza di scrutare nella bilancia della giustizia quel porto sicuro che spesso ci immaginiamo e dove altrettanto spesso ci rifugiamo. Narrazione compresa in pieno anche da Anna Delvey, la finta ereditiera che ha fregato mezza New York, la cui vicenda ha ispirato la miniserie Inventing Anna (anche questa su Netflix), che, alla vigilia del lancio della serie, ha scritto e pubblicato su Insider una lunga lettera in cui ha denunciato le ingiustizie del sistema carcerario degli Stati Uniti e i trattamenti riservati i galeotti.
Si può monetizzare il senso di colpa, si può fare intrattenimento raccontando una tragedia, si può alimentare l’ego e accrescere la propria fama sfruttando la risonanza mediatica delle proprie vicende giudiziarie. Vedi Anna, vedi Joe Exotic, protagonista di Tiger King (Netlix), vedi i protagonisti di I’m a Killer (sempre Netflix). Può anche capitare che la storia che hai provato a raccontare ti scappi dalle mani e si avvii verso l’epilogo che hai sperato. È successo con Cucchi ed è successo anche ad Andrew Jarecki, che dall’uscita di The Jinx nel 2015 non ha più lavorato. Forse perché ancora preso dalla soddisfazione del proprio lavoro, forse perché sa di aver già scritto l’opera della sua vita. Come Harper Lee che pubblica Il buio oltre la siepe e smette di scrivere per quasi 60 anni, perché quando hai scritto il libro perfetto che non invecchia e muore mai cosa altro vuoi fare se non vivere di rendita e della stima che meriti.
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