Cosa hanno scritto su Kamala Harris
L’informazione è più che mai concentrata su Harris. Dal confronto con Trump alla politica estera, i giornali americani e italiani sono d’accordo su tre punti fondamentali
È quasi election day. Così, l’informazione è più che mai concentrata sulla sfida tra Donald Trump e Kamala Harris – l’uomo che per otto anni ha assediato la psiche della nazione e la donna che deve ancora farsi conoscere.
A fronte dell’abbondanza di informazioni che possiedono sull’ex presidente, la stampa americana, così come quella italiana, a partire dal 21 luglio – il giorno in cui Joe Biden ha chiamato la vice per annunciarle che adesso sarebbe stato il suo momento – hanno lavorato più o meno sodo per mettere insieme i pezzi del puzzle Harris. Ma entrambe sono d’accordo su tre punti.
Harris è, più di tutto, un’alternativa alla minaccia di Trump
«È difficile immaginare un candidato più indegno di Donald Trump a ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti», sentenzia il New York Times. «Moralmente inadatto», sprovvisto delle qualità richieste dal ruolo – «saggezza, onestà, empatia, coraggio, moderazione, umiltà, disciplina». Per non parlare delle «sue numerose accuse penali, la sua età avanzata, la sua profonda mancanza di interesse per la politica e il suo cast di soci sempre più bizzarro». Per questi motivi, afferma il quotidiano americano, «Kamala Harris è l’unica scelta patriottica per la presidenza». Per questi motivi. «Indipendentemente da eventuali disaccordi politici che gli elettori potrebbero avere con lei», aggiunge. Come a dire: a prescindere da lei, nonostante lei. L’unica alternativa possibile. Se è Trump quello che rischiamo, allora: Harris!
In un altro editoriale il New York Times si ripete. Ecco l’argomento che le serve per «dimostrare di meritare la presidenza»: che lo si ami o lo si detesti, che si preferiscano le sue politiche o quelle di Harris, se Donald Trump vincerà le elezioni l’America «sarà un Paese amaramente, vocalmente, emotivamente, estenuantemente diviso». È un avvertimento, una cautionary tale. Deve essere questo il closing argument di Harris, scrive il quotidiano, questo l’American dream offerto dalla candidata democratica: un futuro senza Trump.
Negli ultimi otto anni, conviene il New Yorker, «i democratici hanno trascorso gran parte del loro tempo consumati da quello che la defunta teorica politica Judith Shklar chiamava “il liberalismo della paura”. Ma la paura costante è estenuante». Siccome in ballo ci sono i grandi equilibri geopolitici, Kamala Harris potrebbe traghettarci tutti con entusiasmo verso un futuro più tranquillo. O, almeno, l’idea è quella. Secondo Il Foglio, anche l’Italia e, soprattutto, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – anche se non può dirlo ad alta voce – dovrebbe augurarsi la vittoria di Harris se vuole restare «atlantica, europea e poco salviniana» e continuare a impegnarsi nella «difesa della democrazia».
Harris, insomma, è un’alternativa «necessaria». E che altro?
Bob and weave: schivare le domande sta diventando poco convincente
Nello sprint finale prima del giorno delle elezioni, Harris si è sottoposta a una serie di interviste per parlare agli elettori che affermano di non saperne ancora abbastanza di lei, partecipando a programmi tradizionali come 60 Minutes della CBS e il popolare podcast Call Her Daddy. I media americani hanno rilevato che Harris tende a bob and weave, schivare le domande, o rispondere alla domanda che vuole ma non a quella che le è stata posta. E, soprattutto, è molto vaga sui dettagli politici.
Un’analisi del Washington Post sul recente media tour della candidata mette in luce che il fact-checking non è proprio il suo forte. In particolare, ha fatto affermazioni «fuorvianti» sulla legge sull’immigrazione e sul fentanyl, ripetendole in diverse interviste condotte a giorni di distanza.
Questo modo di reintrodursi alla nazione, dopo aver faticato a distinguersi nel suo ruolo di vice per più di due anni, è ancora pervaso da molta vaghezza. Un modo di planare sugli argomenti di discussione, specie quelli più controversi, che appartiene a tutti i politici di professione, ma che rende Harris, con i suoi cento giorni di campagna elettorale, poco convincente. Anche Biden, in passato, ha descritto Harris come un «work in progress». Ma adesso è tempo di disseminare certezze, non dubbi.
Repubblica e il Giornale hanno ripreso un commento del New York Times a proposito di una «luna di miele» finita. La corsa presidenziale è cambiata radicalmente da quando Kamala Harris ha preso il posto di Joe Biden, «dando una scossa elettrica a un apatico Partito Democratico», si legge sul NYT. I suoi collaboratori hanno annunciato il calcio d’inizio della sua nuova campagna come uno slancio verso lo svecchiamento. Charli xcx ha dichiarato «Kamala IS brat», Taylor Swift si è autodenunciata gattara e infine anche Beyoncé ha appoggiato pubblicamente Harris. I democratici sono ripartiti con grande fermento, ma sostenere lo slancio è la vera sfida: quanto dura la luna di miele?
Anche perché l’ala più progressista del partito Democratico, sottolinea il Washington Post, ha sempre detto di non sentire nei confronti di Harris la stessa connessione che sentiva con Biden e, mentre la candidata si sposta verso il centro, un recente sondaggio del Wall Street Journal mostra infatti che la vicepresidente ha ancora molto lavoro da fare per guadagnarsi il favore degli elettori neri, latini e dei giovani, gruppi che tradizionalmente sostengono i democratici.
Dentro la bolla
Ma la vaghezza è soprattutto in politica estera. Il Wall Street Journal commenta che, quando si tratta di guerra, Kamala Harris (così come Joe Biden) «non potrebbe essere più contraddittoria». E questo perché, spiega il manifesto, la campagna di Harris è «orientata in senso autoprotettivo, e dunque autoreferenziale, con la celebrazione liturgica dell’unità, che non va messa a rischio da temi che possono essere di conflitto e di divisione». Il quotidiano accusa Harris di restare in una «bolla», le rimprovera «l’assenza di discussione su importanti temi politici, interni e internazionali, fino alla cancellazione della questione palestinese».
A tal proposito, in un editoriale del New York Times, la psicologa clinica e professoressa palestinese americana Hala Alyan commenta duramente la «disastrosa politica estera su Gaza» di Harris, soprattutto per quanto riguarda la «partecipazione attiva e il finanziamento della nostra nazione all’attuale assalto».
«Non c’è dubbio che Harris sia più eloquente del presidente Biden sulla questione», si legge nell’articolo. «Ciò che apprezzerei di più sarebbe fare i nomi di chi sta uccidendo e affamando i palestinesi, atti che non sono né inevitabili né senza un autore. Apprezzerei il rispetto del diritto internazionale attraverso sanzioni e un embargo sulle armi. Le menzioni di un cessate il fuoco a Gaza sono vaghe. Mi piacerebbe vedere una donna nera guidare questo Paese. Mi piacerebbe vedere una donna dell’Asia meridionale guidare questo Paese. Ma non sono toccata da nessun indicatore di identità se non è accompagnato da un impegno per la vera giustizia. Perché il punto di un futuro degno è questo: non ti ci imbatti per caso. Lo costruisci tu».
In pratica una riedizione del votare turandosi il naso di Montanelliana memoria qui da noi…