La cooperazione allo sviluppo dell'amministrazione Biden
Il Presidente democratico ha confermato gli aiuti umanitari, aumentando la spesa nel campo del foreign aid del 12% rispetto al suo predecessore.
Ogni anno ad ottobre, in coincidenza con l’inizio dell’anno fiscale, il Presidente degli Stati Uniti stila una richiesta di budget, in gergo tecnico budget request, che verrà indirizzata al Congresso. Si tratta di una vera e propria “lista della spesa”, la cui compilazione viene delegata a tale organo legislativo, che si occupa di trovare un consenso bipartisan sui livelli di spesa da adottare per le determinate voci.
L’amministrazione Biden ha proposto un piano di spesa che vede un rinnovato impegno nel campo degli aiuti umanitari (foreign aid), a cui vengono destinati quasi 64 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2022. Un aumento del 12% rispetto all’ultimo budget stilato dall’amministrazione Trump. Le spese in aiuti all’estero volute da Biden e gestite dall’agenzia federale per lo sviluppo internazionale USAID sembrano focalizzarsi su tematiche ritenute importanti dall’attuale presidenza: il contrasto al riscaldamento globale e la mitigazione di disastri naturali generati da esso nel resto del mondo, la lotta al COVID e ad altri agenti patogeni nei Paesi in via di sviluppo, un programma per il Centro America affetto da povertà e crimine endemico e area d’origine dei drammatici flussi migratori verso gli Stati Uniti.
Ripercorrendo la storia del concetto di foreign aid e degli aiuti umanitari negli Stati Uniti, osserviamo come essi siano sempre stati pionieristici. Nel 1921 l’allora Segretario del Commercio Herbert Hoover, poi diventato Presidente nel 1929, sponsorizzò il Russian Famine Relief Act, un’autorizzazione a mobilitare circa 20 milioni di dollari per contrastare le carestie nella nascente Unione Sovietica. Hoover vedeva nello sforzo umanitario un modo per promuovere l’immagine degli Stati Uniti come nazione caritatevole, per combattere la povertà nell’Europa post-bellica e per portare avanti un contenimento (containment) ante litteram del bolscevismo, aprendo ponti con le nuove nazioni formatesi sulle ceneri degli Imperi Centrali.
L’American Relief Administration (ARA), la missione di soccorso diretta dallo stesso Hoover, spese in totale un miliardo di dollari solo nel Vecchio continente. Gli aiuti non si limitavano al solo cibo. Ingenti risorse furono destinate alla ricostruzione delle infrastrutture ferroviarie, delle comunicazioni postali e telegrafiche ed al ripristino dell’industria civile del carbone, quasi completamente monopolizzata dalla produzione dell’acciaio bellico. Hoover era un amministratore parsimonioso ed efficiente, che preferiva impiegare largamente manodopera locale coadiuvata da un nucleo amministrativo di funzionari americani.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il successo del Piano Marshall attuato dall’amministrazione Truman terminò nel 1953, con ulteriori estensioni bloccate dal Congresso preoccupato per le spese ingenti sostenute durante la guerra di Corea. Fino al 1960, il foreign aid smise di essere una priorità per la Casa Bianca. L’elezione di John F. Kennedy alla presidenza diede una ventata di novità: il giovane Presidente ritenne che gli Stati Uniti dovessero affrontare la realtà di un mondo decolonizzato proponendosi positivamente come “saggi leader e buoni vicini”, sostenendo il cammino verso lo sviluppo intrapreso dai Paesi di quello che allora veniva chiamato “terzo mondo”. Kennedy fu profondamente influenzato dalla lettura di The Ugly American, romanzo del 1958 scritto dagli ufficiali navali William Lederer ed Eugene Burdick. Nel romanzo, ambientato in una fittizia nazione del sud-est asiatico, le tecniche obsolete ed insensibili del corpo diplomatico americano incapace di adattarsi alla cultura locale portavano al trionfo delle forze comuniste operanti nel Paese.
Kennedy tracciò il disegno di una nuova agenzia federale, la sopracitata e ancora attiva U.S. Agency for International Development (USAID), che avrebbe centralizzato tutti i programmi di assistenza tecnico-economica erogati dal governo verso Paesi stranieri. All’impalcatura data dal Piano Marshall fu aggiunto dunque un mandato più ampio: l’USAID si sarebbe occupata di garantire sicurezza alimentare ai Paesi bisognosi, fornire loro assistenza sanitaria e educativa e sostenere lo sviluppo del capitale umano. All’agenzia venne affiancato un programma di volontariato civile, i cosiddetti Peace Corps. Inizialmente un’idea del senatore democratico Hubert Humphrey (futuro e sfortunato sfidante di Nixon nel 1968), i Peace Corps di Kennedy usarono le università come bacino di reclutamento. Dopo un rapido corso di tre mesi, i volontari dovevano compiere un tour di servizio lungo due anni, spesso attingendo alle conoscenze specifiche acquisite durante il college. Non mancarono ovviamente le critiche interne: per Richard Nixon, i Peace Corps erano “il paradiso dei nullafacenti e di chi vuole risparmiarsi la leva”.
Una delle scelte più ambiziose di Kennedy rimane l’invenzione della Alliance for Progress (Alianza para el progreso) nel 1961. Concepita come strumento per contrastare l’ascesa delle lotte si ispirazione comunista sulla scia di Castro e Guevara in America Latina, essa proponeva di soddisfare i bisogni primari delle popolazioni latinoamericane assicurando casa, lavoro, salute ed istruzione (techo, trabajo, salud y escuela). Kennedy presentò il piano in una riunione interamericana a Punta del Este, in Uruguay, enfatizzando la necessità di adottare codici fiscali più favorevoli agli affari, democratizzare le istituzioni e promuovere programmi di redistribuzione della terra per assicurare una buona base di partenza per i contadini più poveri.
Al programma Alliance for Progress fu destinata una somma, ritenuta relativamente esigua, di 3 miliardi di dollari l’anno. La storia della Alliance for Progress non proseguì tuttavia in modo semplice. Il Presidente Lyndon B. Johnson portò avanti il programma a fatica, dovendo accollare sul bilancio federale le nuove politiche di welfare della Great Society e la crescente spesa per sostenere il conflitto in Vietnam. I tagli dell’amministrazione Nixon portarono infine al suo smantellamento nel 1973, dopo la pubblicazione delle rilevazioni compiute dal repubblicano liberale Nelson Rockefeller sugli effetti del programma in Sud America. La crescita economica e l’alfabetizzazione dei paesi sudamericani era cresciuta sostanzialmente grazie agli aiuti statunitensi, ma l’insuccesso aveva riguardato le riforme terriere, lo sviluppo di reti sanitarie efficienti e la crescita degli stipendi. Il proliferare di golpe militari nell’area pose una pietra tombale sull’obiettivo forse più ambizioso di Kennedy: preservare e promuovere la democrazia in America Latina.
Il ricorso al foreign aid come utile strumento di politica internazionale non è tuttavia un’esclusiva dei Presidenti democratici. Uno dei più grandi successi dell’USAID venne realizzato dall’amministrazione di George W. Bush nei primi anni 2000 attraverso la President’s Emergency Plan For AIDS Relief (PEPFAR). L’ex Presidente Bush, venuto a conoscenza del farmaco antiretrovirale per ridurre gli effetti del virus HIV Nevirapina ed incoraggiato dalla moglie Laura, incoraggiò il Congresso nel 2003 ad approvare un piano di circa 15 miliardi di dollari per assicurare la disponibilità del medicinale in diversi Paesi africani. Tale piano fu gestito dal Dottor Anthony Fauci, all’epoca specialista nella cura e prevenzione delle epidemie dell’AIDS in seno al National Health Institute. Il piano PEPFAR in sé ebbe successo: si stima che esso abbia contrastato l’infezione di circa due milioni di bambini nati da madri sieropositive, rendendone sicuro anche l’allattamento. Nel contesto della controversa guerra in Iraq il piano PEPFAR, che perdura ancora oggi, rese Bush ampiamente popolare in Africa e riuscì a contrastare almeno in quel continente l’emorragia di supporto per gli Stati Uniti.
I quattro anni dell’amministrazione Trump sono stati tumultuosi per l’USAID. L’ex Presidente si rivelò subito ostile al concetto di foreign aid, sostenendo che gli USA dovevano “costruire strade e ponti a casa invece di mandare aiuti a Paesi che ci odiano”. Le dure posizioni di Trump furono seguite da un lungo e protratto tentativo di tagliare i fondi all’agenzia, non sempre assecondato dai deputati repubblicani. I programmi di sviluppo vennero spesso stravolti per assecondare interessi particolari o privatistici, tra cui una campagna promossa dal vicepresidente Pence per supportare economicamente le minoranze cristiane nel mondo ed un sofisticato pet project di Ivanka Trump focalizzato sull’emancipazione femminile. L’amministrazione puntò anche su una maggiore componente privata nel programma, un’idea abbastanza inedita per l’USAID ma che a detta di alcune voci riformiste è uno dei lasciti migliori dell’altresì equivoca e noncurante gestione Trump.
Arrivati ad oggi, l’Amministrazione Biden non si limiterà soltanto allo strumento unilaterale della cooperazione allo sviluppo. L’iniziativa Build Back Better World (B3W), promossa dal G7 e dall’OCSE sotto la spinta della stessa amministrazione, è forse un grande riassunto di tutte le principali tendenze osservate nelle politiche di foreign aid e sostegno allo sviluppo promosse dagli USA nello scorso secolo. Un’attenzione alle questioni umanitarie più basilari, ma anche alla costruzione di infrastrutture, investimenti nella sanità e nell’ambiente, il tutto spalleggiato da una fitta partnership-pubblico privato.
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