A chi conviene negare il cambiamento climatico?
Compagnie petrolifere, miliardari conservatori e think tank della destra libertaria finanziano pesantemente il negazionismo climatico. Ecco come.
Il cambiamento climatico di origine antropica esiste. Lo sospettiamo almeno dal 1824, quando il fisico Joseph Fourier parlò per primo di “effetto serra” atmosferico. Lo sappiamo con un certo grado di certezza fin dagli anni Cinquanta, quando lo scienziato Roger Revelle cominciò ad allertare il pubblico del fatto che continuare a bruciare combustibili fossili fosse "un grandioso esperimento scientifico" sul clima.
Non c’erano più dubbi già ai tempi del Rapporto Charney, pubblicato da NASA e National Oceanic and Atmospheric Administration nel 1979, in cui si concludeva che un serio riscaldamento globale era alle porte e “una politica basata sull’aspettare di vedere cosa succede vorrebbe dire che potrebbe essere troppo tardi”.
Gli Stati Uniti sono uno dei Paesi avanzati in cui le conseguenze di questa politica sono già estremamente evidenti, dalle ondate di caldo devastanti che hanno avviluppato la West Coast tra il giugno e l’agosto di quest’anno – e commentate sardonicamente da Joe Biden con un “non preoccupatevi, il riscaldamento globale non esiste, è solo il frutto della nostra immaginazione” – al freddo senza precedenti che ha colto impreparato il Texas a febbraio, mandando in tilt le infrastrutture dello Stato.
Poi, ovviamente, gli immensi incendi che ormai distruggono regolarmente ettari ed ettari ogni anno, la siccità, gli uragani più frequenti, l’innalzamento del livello del mare che minaccerà le coste negli anni a venire. Eppure, gli USA vantano l’infame titolo di terza nazione con più alto tasso di negazionisti del cambiamento climatico al mondo, superata soltanto dall’Arabia Saudita e l’Indonesia.
Non è un caso: il Paese è il più grande produttore di petrolio al mondo (seconda, appunto, l’Arabia Saudita di cui sopra), e a tantissime persone importa che continui ad esserlo, per ragioni economiche o ideologiche. Costi quel che costi.
A dare l’esempio in questo senso è stata Exxon, la più grande compagnia petrolifera statunitense. Nel 1978, i consiglieri scientifici dell’azienda cominciarono ad avvertire i vertici del fatto che esistesse “una finestra di cinque o dieci anni prima che si presenti la necessità di prendere decisioni difficili riguardanti l’attuale strategia energetica” per evitare il cambiamento climatico. La compagnia mandò anche in spedizione una superpetroliera, la Esso Atlantic, il cui obiettivo era quello di monitorare l’anidride carbonica nell’aria e nell’acqua marina: grazie ai dati raccolti, entro il 1982 gli scienziati di Exxon avevano previsto accuratamente l’aumento della temperatura globale fino ai giorni d’oggi.
La scienza è unanime, diceva il loro rapporto: il riscaldamento atmosferico avrebbe portato “cambiamenti significativi” nel clima terrestre. Poi, il lavoro della Esso Atlantic venne interrotto di punto in bianco - ed ebbe inizio una campagna mediatica “sistematica e organizzata” per intorbidire le acque e confondere il pubblico, cavalcando la falsa idea che gli scienziati fossero divisi sul tema, quando la verità era (ed è) che esiste un consenso schiacciante nella comunità scientifica attorno all’incombenza di una crisi climatica creata dall’uomo.
Parte di questo lavoro sporco venne affidata all’American Petroleum Institute, la principale organizzazione professionale statunitense nel campo dell'ingegneria petrolchimica e chimica, che teoricamente dovrebbe tenere a mente la salute e l’ambiente nel lavorare alle circa 200mila pubblicazioni che distribuisce ogni anno. Nella pratica, l’API nel 1998 ha lanciato un piano da milioni e milioni di dollari il cui scopo principale era quello di far scomparire il cambiamento climatico dai radar del discorso pubblico attraverso una massiccia campagna di disinformazione. Parte della strategia era quella di consentire ai politici di sollevare "domande così serie sulle basi scientifiche del Protocollo di Kyoto che gli Stati Uniti, non solo si rifiuteranno di approvarlo, ma cercheranno di impedire progressi verso la sua attuazione".
A ricevere miliardi di dollari di finanziamenti da parte di giganti del settore petrolifero e filantropi di destra per screditare la ricerca scientifica che giustificherebbe una maggiore regolamentazione di settori altamente inquinanti sono stati, poi, quei conservative think tank (CTT) che fungono da apparati per l’incubazione e la diffusione di posizioni conservatrici e che sono stati per decenni in prima linea nella “macchina del negazionismo”. Per dare qualche numero, un rapporto del 2019 ha rilevato che "le cinque maggiori compagnie di petrolio e gas quotate in borsa (ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total) hanno investito oltre un miliardo di dollari nei tre anni successivi all'Accordo di Parigi per diffondere messaggi fuorvianti legati al clima”.
“I CTT hanno raggiunto lo status di ‘accademia alternativa’ ed è comune vedere i loro rappresentanti intervistati insieme o al posto di eminenti accademici e trattati come esperti indipendenti su questioni di rilevanza politica”, spiegavano i ricercatori Riley E. Dunlap e Peter J. Jacques già nel 2013. “Impiegano personale interno e su commissione per produrre una vasta gamma di materiale cartaceo (dagli editoriali alle note politiche, dagli articoli di riviste ai libri), nonché per fare apparizioni sui media, fornire testimonianze al Congresso, tenere discorsi e così via per promuovere posizioni conservatrici su un'ampia gamma di questioni politiche, incluso l’ambiente”.
La lista è lunghissima, ma tra i think tank di destra oltranzisti del libero mercato che più si sono spesi per disinformare sul cambiamento climatico ci sono il Cato Institute – non a caso fondato da Charles Koch, che insieme al fratello David (morto nel 2019) è tra i più pesanti finanziatori di questa macchina del fango – l'American Enterprise Institute, il George C Marshall Institute, la Reason Foundation, la Heritage Foundation, il Manhattan Institute e Americans for Prosperity (fondato sempre da David Koch). La loro presenza nei media mainstream è pervasiva: una ricerca condotta sui cinque CTT più attivi sul tema del cambiamento climatico – Heartland Institute, American Enterprise Institute, Cato, Competitive Enterprise Institute ed Heritage Foundation – mostra che negli ultimi anni la copertura mediatica delle loro posizioni negazioniste è molto aumentata. Sia i media conservatori che quelli mainstream offrono spesso loro una piattaforma, contribuendo ad alimentare la falsa idea che abbiano una credibilità pari a quella dell’effettiva comunità scientifica.
La sovrapposizione degli interessi economici delle grandi compagnie petrolifere, nonché dei politici che rappresentano elettori la cui sussistenza si basa sul mercato dell’energia fossile, e di quelli ideologici di politici e think tank conservatori non è difficile da spiegare. Come ha affermato l'éminente filosofo ambientale J. Baird Callicott, “non sarà sufficiente semplicemente incoraggiare le persone individualmente e volontariamente a costruire sistemi ibridi ecologici. (...) Al contrario, l'unica speranza che abbiamo per mitigare il cambiamento climatico globale è una risposta socioculturale collettiva sotto forma di politiche, regolamenti, trattati e leggi”.
Un incubo per quei conservatori che vorrebbero che il governo si intromettesse il meno possibile nel mercato, ma anche per i social conservatives e la Religious Right, impegnati dagli anni Ottanta a combattere una guerra culturale senza esclusione di colpi per proteggere una fantomatica American way of life. Come riassume il professor Jean-Daniel Collomb, “il riscaldamento globale pone una sfida filosofica ai libertari e ai small-government conservatives: la loro visione del mondo si basa sull'idea che il potere del governo dovrebbe essere sempre tenuto sotto controllo per non distruggere la libertà individuale, mentre il mondo si trova di fronte a una crisi di proporzioni globali che potrebbe essere scongiurata soltanto da una forte e prolungata azione governativa (...) Date tali circostanze, la negazione sembra essere una strategia più desiderabile di una devastante rivalutazione delle proprie convinzioni profondamente radicate”.
Così, aggiunge, “il movimento di negazione del cambiamento climatico a volte appare come la continuazione della politica della Guerra Fredda con altri mezzi. I negazionisti sono inclini a respingere la teoria del riscaldamento globale causato dall'uomo e tutti i relativi schemi del governo per mitigarlo come una sorta di cospirazione socialista ordita dai nemici della libertà economica (...). Il contributo centrale delle attività umane al riscaldamento del nostro pianeta non distrugge le ragioni di un'economia di mercato di per sé; tuttavia, intacca la validità della fede della destra americana nel libero mercato come soluzione definitiva a tutti i problemi sociali, economici e ambientali. Ammettere la sconfitta nella guerra per il clima avrebbe ripercussioni devastanti sull'atteggiamento intellettuale di molti funzionari e attivisti conservatori”. Meglio continuare ad avvelenare i pozzi.
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