Come un cervo in autostrada: la paralisi del Partito Democratico
Incerti su come muoversi, i Dem paiono immobili e questo non piace a una buona fetta degli elettori progressisti. Come dare una sveglia agli americani?
Il Partito Democratico è sotto shock. L’elezione di Donald Trump ha mostrato le debolezze strategiche e comunicative dei Dem, ma ancora di più ha fatto la mitragliata di ordini esecutivi del nuovo inquilino della Casa Bianca nell’ultimo mese. Trump ha dimostrato ancora una volta la sua capacità di saper stordire l’avversario, padroneggiando in maniera impeccabile il principio dell’escalate to de-escalate, un approccio che deriva dal mondo del business e che applica anche alla politica: dettare termini coercitivi per prendere il controllo della narrativa e, in definitiva, far passare un compromesso come accettabile quando fino poco prima non lo era.
Lo abbiamo visto in merito alle tariffe commerciali, con Messico e Canada: minacciando dazi sulle importazioni, ha forzato la mano. Stesso metodo con la Colombia, verso la quale ha usato le tariffe come leva per ottenere l’accettazione dei voli di rimpatrio dei migranti.
Questo metodo di negoziazione, tuttavia, non è ancora stato ancora ben compreso da tutte le controparti, sia interne che esterne. Trump è abituato a negoziare come in un suq di Marrakech, dove chi vende spara un prezzo ridicolmente alto e chi compra uno ridicolmente basso, sapendo entrambi che si tratta del gioco delle parti e che il vero obiettivo è un altro. Tuttavia, mentre Trump spara alto, i suoi avversari sembrano il turista occidentale che si fa abbindolare perché abituato ai prezzi sui cartellini. Quantomeno, così hanno agito fino a oggi. Trump, in questo senso e non solo, è un negoziatore puramente transazionale e amorale, che vede qualsiasi trattativa come una semplice questione di vantaggio economico e potere. Questo è il motivo per cui si trova più a suo agio con Vladimir Putin che con Ursula von der Leyen.
Eppure, nonostante Trump operi con questa strategia tutto sommato prevedibile, il Partito Democratico non sta adottando precauzioni adeguate. Invece di rilanciare sta rispondendo in modo istituzionale, senza un’efficace contro-escalation strategica. Tuttavia, l’unico modo per fermare un negoziatore che forza continuamente la trattativa è rilanciare a propria volta, rifiutando le sue premesse per costringerlo a un compromesso diverso da quello inizialmente previsto.
Questo non sta avvenendo, a causa della mancanza di una mobilitazione vera e propria: senza una pressione pubblica visibile e costante, l’opposizione democratica appare debole, reattiva invece che proattiva. I leader democratici parlano di minacce alla democrazia, ma senza una massiccia manifestazione fisica di resistenza rischiano di risultare solo parole vuote. Così facendo, i democratici fanno la figura del cervo in autostrada: abbagliati dai fari del tir che sta piombando loro addosso se ne stanno fermi, indecisi su come muoversi. Giocano sulla difensiva, senza riuscire a mobilitare in maniera efficace il proprio elettorato, deluso e amareggiato da questa mancanza di iniziativa.
Un'indecisione evidente, che mostra una frattura nella base democratica. Da una parte, ci sono quelli che preferiscono mantenere un profilo alto, evitando di scendere allo stesso livello del linguaggio aggressivo e spesso provocatorio di Trump e dei repubblicani, nel timore di allontanare i moderati e di restringere ulteriormente la base elettorale. Dall’altra, c’è chi chiede una risposta più dura, anche al di fuori della tradizionale etica politica, per contrastare l’aggressività repubblicana con la stessa moneta, convinti che combattere con una mano legata dietro la schiena sia una strategia perdente a prescindere.
David Axelrod, uno dei più influenti strateghi democratici, ha sintetizzato questa tensione interna affermando che “un conto è essere duri e un conto è essere cattivi. Se vuoi vincere le elezioni, meglio il primo. Se vuoi fare più click e intrattenere la tua base, va bene il secondo”. Un riferimento agli influencer democratici come la tiktoker Suzanne Lambert, la quale ha sollevato la questione: per lei i repubblicani vanno attaccati con tutti gli strumenti a disposizione, anche giocando sporco.
Lambert ritiene che l’unico momento davvero brillante della campagna democratica sia stato quando Tim Walz ha definito i repubblicani weird, strambi. È stato uno dei pochi guizzi di genio comunicativo, mentre il resto della campagna, sia di Biden che di Harris, è rimasto privo di incisività. Questo evidenzia una delle grandi mancanze della strategia democratica: la difficoltà nel costruire una narrazione efficace che galvanizzi gli elettori e li porti a partecipare sporcandosi le mani, andando porta a porta, facendosi sentire nel mondo reale in maniera dirompente.
Non è scontato che la soluzione stia da una parte o dall’altra, potrebbe anzi stare in una strategia differenziata per ruoli. Da un lato, il partito e i politici veri e propri devono mantenere una certa compostezza e credibilità istituzionale, concentrandosi nel combattere Trump al congresso e nei tribunali in maniera dura ma senza scendere al suo livello, con lo scopo di incarnare un’alternativa presentabile al tycoon. Dall’altro, la galassia degli influencer democratici può muoversi con maggiore libertà, agendo oltre i confini dell'etica politica tradizionale e parlando alla pancia degli elettori. Un approccio che ha il potenziale di mobilitare più persone, sfruttando il linguaggio e le dinamiche dei social media per creare un senso di urgenza e appartenenza.
Questo non è comunque sufficiente: le armi della democrazia non si esauriscono con i ricorsi in tribunale e i reel sui social. La mobilitazione che più di qualsiasi altra cosa manca nel Partito Democratico è fisica, non virtuale, e rappresenta quel rilancio negoziale che finora i Dem non sono stati in grado di giocare nella trattativa politica. Scendere in piazza, protestare, essere materialmente presenti è un'opzione che il Partito Democratico sta sottovalutando, sebbene sia un modo di fare politica assodato, per una nazione come gli Stati Uniti. Dopotutto, i movimenti progressisti di successo nella storia americana, dal movimento per i diritti civili alle proteste contro la guerra in Vietnam, hanno sempre avuto una componente di mobilitazione reale.
Se i Dem vogliono davvero contrastare l’erosione della democrazia devono essere presenti nelle strade, organizzare proteste e rendere visibile la propria opposizione in maniera plateale, e il motivo è semplice: è difficile far capire agli elettori che stanno assistendo a un colpo di Stato, se non ci sono proteste visibili e conseguenti repressioni che possano dimostrare la gravità della situazione. Sebbene ci troviamo nell’era dei social media e dell’intelligenza artificiale, l’assenza della dimensione fisica rischia di rendere inefficace ogni strategia, per quanto ben congegnata a livello mediatico.
Per David A. Graham, analista di The Atlantic, il Partito Democratico si trova in una crisi simile al Gop nel 2009, da cui poi scaturì il movimento Tea Party. Se il Partito Democratico riuscisse a convogliare nella maniera corretta l’energia proveniente dal basso, potrebbe dare una svolta alla situazione attuale. Deve però riuscirci in breve tempo, altrimenti corre il rischio di rimanere bloccato in una spirale di sconfitte, con Trump e i repubblicani pronti ad approfittarne per spostare la palla sempre un po’ più in là. Verso una democratura, ovvero la finta democrazia preludio alla dittatura che stiamo vedendo in Paesi come l’Ungheria. La battaglia politica americana non è quindi solo una questione di ideali, ma una sfida esistenziale fatta di strategie e di capacità di rispondere in modo efficace alle sfide del momento. Fino a quando i democratici non capiranno che la politica non è solo istituzioni e media, ma anche forza di piazza e capacità di influenzare direttamente l’opinione pubblica, continueranno a perdere terreno.
Fino a quando rimarranno spiaccicati sul paraurti del tir.