Come raccontare El Salvador?
Narrare un Paese dimenticato significa scegliere di osservare l’invisibile e dare un volto e un’anima a coloro che "già da molto tempo hanno smesso di contare"
“Questa è la storia dei migranti che non contano, di quelli che già da molto tempo hanno smesso di contare”, scrive Óscar Martínez, giornalista salvadoregno, il 28 luglio 2014, nel suo lungo reportage raccolto nel libro La bestia. Il treno della speranza per i migranti in fuga dalla povertà e dai narcos (Fazi Editore).

Esistono persone invisibili, in Paesi invisibili, che raramente fanno notizia; o meglio, diventano notizia solo quando sono costrette a muoversi e ad abbandonare il loro Paese impercettibile per raggiungerne un altro che, invece, vive da sempre sotto i riflettori. Le foto delle deportazioni dei criminali espulsi dagli Stati Uniti e rimpatriati a El Salvador, dopo l’accordo tra il presidente Bukele e Trump, hanno fatto il giro del mondo e risvegliato l’attenzione sulla repubblica dell’America centrale.
Nel 1986 fu Oliver Stone, nel suo Salvador, a raccontare cosa stava accadendo in questo luogo dimenticato: una guerra civile durata quasi 13 anni (dal 1979 al 1992), in cui persero la vita oltre 75.000 persone, perlopiù civili, e in cui le violenze sessuali segnarono intere generazioni di donne. Il film segue le vicende di Richard Boyle (interpretato da James Woods), un reporter di guerra disilluso che spera di trovare nella guerra civile salvadoregna la sua occasione di riscatto professionale: troverà, invece, un Paese distrutto, segnato dalla violenza e dalla sistematica violazione dei diritti umani.
Scegliere di osservare un Paese invisibile significa anche misurarsi con l’idea che le sue vittime siano incorporee, senza volto e senza nome: è il caso del lungo reportage che Joan Didion realizzò nel 1982, Salvador, pubblicato sulle pagine del New York Review of Books.
Un’esperienza forte e terrificante che costrinse la giornalista e scrittrice americana a interrogarsi sul senso di esistere, di scomparire davanti agli occhi dei propri cari e davanti agli occhi chiusi del mondo: ma anche su cosa sia il potere politico, su quali e quante forme abbia quando cerca di sopravvivere e sui rapporti tra il governo di El Salvador e gli Stati Uniti.
Essere migranti, lasciare El Salvador, spiega Óscar Martínez, vuol dire essere consapevoli di dover fuggire, senza sapere esattamente da cosa: “Auner non sa nulla degli uomini da cui scappa. A casa si è lasciato alle spalle una sfilza di uccisioni senza soluzioni. Ora, alla cieca, fugge e si nasconde. Sente di non avere tempo per riflettere”. L’importante è arrivare al Nord. Per farlo bisogna passare per il Messico, affrontare un viaggio di 28 giorni, arrivare a prendere un treno in Chiapas, o nello Stato di Tabasco per “risalire lungo l’altra rotta della Bestia, come chiamano il treno”.
Si può morire in un attimo, senza un vero motivo: uccisi dal crimine organizzato, da narcotrafficanti e gang. Oppure diventare corpi mutilati mentre si cerca di cavalcare quel treno. “Se il sogno è facile, il viaggio è oltremodo pericoloso. A volte è semplicemente la spossatezza a ucciderti. Basta scivolare lentamente nel sonno, e la testa ti è strappata via dal corpo”. Come è successo a José, un ragazzino che fuggiva da El Salvador perché perseguitato dalle gang che avevano chiesto un pizzo troppo alto nel negozio in cui lavorava.