Colorblind? Musk, il razzismo e gli afroamericani
Le accuse di razzismo non riguardano tanto l'uomo, quanto le sue aziende, dove si moltiplicano i casi di discriminazione, alcuni eclatanti.
A giugno di quest’anno, durante una conferenza stampa in Florida, è stato chiesto al governatore della Florida, Ron DeSantis, impegnato nella campagna per la sua rielezione, cosa ne pensasse di un tweet di Elon Musk riguardante la possibilità di supportarlo come candidato del Partito Repubblicano alle presidenziali del 2024. La risposta di De Santis, chiaramente preceduta da un cappello legato al fatto che fosse focalizzato sulle elezioni imminenti prima che sulle primarie successive, è piuttosto particolare: ha detto infatti che era aperto al supporto degli afroamericani.
La battuta è ovviamente duplice: da un lato si rimarca come i neri siano una categoria massicciamente Democratica, dall’altro viene sarcasticamente imposto Elon Musk come un membro prominente di una comunità di cui non fa parte. Il miliardario è sì nato a Pretoria, ma da bianco in un Paese che denigrava la maggioranza nera a livello istituzionale con l’apartheid, e questo non lo rende parte di una comunità marginalizzata.
Al netto di questo, il comportamento verso le minoranze di Elon Musk e delle aziende di cui è proprietario è grave e Tesla negli anni ha subito diverse denunce per il trattamento irrispettoso che riserva alle minoranze ad esse. Una delle molteplici è stata posta verso lo stabilimento Tesla di Fremont, California, da quindici dipendenti o ex-tali dell’azienda, parlando di ambiente di lavoro tossico, dove l’abuso razziale e i maltrattamenti erano all’ordine del giorno: uno dei querelanti, Teri Mitchell, ha riportato che altri lavoratori si sono rivolti a lui con la frase: «È strano che dei neri lavorino qui, non durerai a lungo». Un altro lavoratore, Nathaniel Gonsalves, afferma di essere stato chiamato «zebra» perché dicevano non si capisse se fosse bianco o nero. Le accuse si sono moltiplicate in modo incredibilmente vertiginoso, con la citazione in giudizio verso Musk di un azionista di Tesla, che lo accusava di non prendere seriamente le denunce e di essere lui stesso il creatore di questa tossicità, istituzionalizzando gli abusi razzisti.
Addirittura, come racconta il Guardian, il California Department of Fair Employment and Housing ha scoperchiato scenari ancora più cupi in una sua inchiesta: ha scoperto che i lavoratori neri ricevevano mansioni molto più pesanti, localizzate in un’area della struttura definita il “Dark Side”, che in azienda veniva costantemente usata la N-Word e la fabbrica era definita “la piantagione”. A queste accuse si aggiungono quelle generali di mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Chiaramente non ci troviamo davanti a casi isolati, l’estensione delle denunce, tra l’altro tutte con una stessa simile base di molestia, dimostra che nelle fabbriche Tesla, luoghi in cui il personale di Human Resources è fortemente inferiore rispetto a quanto servirebbe, il razzismo non è il problema di qualche persona sopra la righe, ma una cultura che arriva fino ai livelli manageriali. Quando Marcus Vaughn, un altro impiegato della fabbrica Tesla di Fremont, si lamentò con le Risorse Umane nel 2017 di essere costantemente riferito come “l’N” dai suoi capi, venne licenziato per non avere una attitudine positiva al lavoro. Tesla ora si trova davanti allo Stato stesso che contesta un mancato utilizzo del Fair Employment and Housing Act e del California Equal Pay Act, rischiando multe milionarie.
Musk ha descritto l’acquisto di Twitter come il momento in cui finalmente ci sarebbe stata, su una delle piattaforme social più importanti d’America, la libertà. Subito dopo il passaggio di consegne all’imprenditore di origine sudafricana, gli epiteti razzisti sono aumentati del 500% in dodici ore. Il peggior insulto a una persona di colore è stato scritto in maiuscolo in un tweet e prima che venisse rimosso sono passate sedici ore: per tutto questo tempo una scritta inutilmente offensiva, digitata semplicemente per comprendere se ci sarebbe stata una vera differenza nella moderazione della piattaforma, è rimasta sotto gli occhi di tutti, ricevendo 7.000 retweet e 5.000 like. Non sono cambiate le politiche del social, è diminuita la volontà di un’applicazione di queste.
Queste storie dimostrano delle fratture insanabili tra la libertà e ciò che Elon Musk chiama libertà: il magnate definisce “libera espressione” qualsiasi parola venga detta da un essere umano, odia la moderazione dei contenuti e ritiene che tutte le persone debbano avere uguale spazio (non ultimo l’ex Presidente Trump, reintegrato dopo un sondaggio a cui hanno partecipato 15 milioni di persone).
Non esiste però, in una società moderna ed inclusiva, come dovrebbero essere gli Stati Uniti di oggi, la libertà di avere pregiudizi, di offendere e discriminare. Bisognerebbe ricordarsi che il Primo Emendamento, per quanto concerne l’assoluta libertà di pensiero, non è un ombrello per affermare le peggiori nefandezze che ci vengono in mente, ma una tutela di manifestazione del pensiero dei più deboli. Martin Luther King fu arrestato perché pregava davanti al Comune di Albany, Georgia, per la fine della discriminazione razziale e i suoi diritti dovevano essere difesi dalle corti federali: oggi non dobbiamo giustificare in nessun modo un’inversione del senso reale della libertà di pensiero, parola ed espressione.
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