Il cielo di Chicago. La WNBA ha le sue campionesse
Chi ha guardato i playoff WNBA ha fatto effettivamente un affare, come avevamo ipotizzato su Gambit a fine settembre.
Hanno vinto le migliori? Probabilmente no, lo hanno fatto le più in forma, portando l’anello a Chicago per la prima volta nei venticinque anni di storia della Lega. A guardare a queste assai intense settimane di playoff, ci si accorge delle “prime volte” da annotare.
Non era mai successo che una squadra arrivata meno che terza in stagione regolare si giocasse la finale. Nel 2021 abbiamo visto Chicago Sky, seste, battere Phoenix Mercury, quinte. Il format particolare della WNBA prevede due turni a eliminazione diretta, chi li passa indenne si gioca la semifinale con le due squadre dal record migliore. Chicago e Phoenix sono partite da dietro, e hanno eliminato rispettivamente Connecticut Sun e Las Vegas Aces, contro pronostico e previsione.
Se ne è discusso, se ne discute e si continuerà a farlo in periodo di offseason: la partita a eliminazione diretta non piace a nessuno, né a coach, né a giocatrici. Anche l’allenatore campione, James Wade, ha dichiarato di essere un fan delle serie, non del dentro-fuori che per ragioni di calendario va bene per il college e non per una lega professionistica. Basterà questo fastidio a dettare cambiamenti? Inutile girarci attorno, la risposta è: non lo sappiamo.
Seconde
Quello appena concluso è stato dunque il venticinquesimo anno di WNBA, ricorrenza festeggiata in molte occasioni e molte maniere, una tra tutte l’elezione delle venticinque giocatrici top di questa storia (tre erano in campo nelle Finals di quest’anno: Candace Parker, Brittney Griner, Diana Taurasi) e poi della migliore tra le migliori, che in virtù dell’acronimo viene raffigurata con l’immagine di una capra, GOAT, Greatest Of All Time.
I voti dei fan hanno scelto, meritatamente (serve scrivere a chi è andato il mio voto?) Diana Taurasi. Un’altra prima volta o quasi… Taurasi gioca a Phoenix e ha perso la finale, cosa che non le è capitata spesso in carriera. In un’intervista rilasciata prima della partita che avrebbe consegnato l’anello a Chicago, ha dichiarato che tra Olimpiadi, Mondiali, WNBA, NCAA, Eurolega e campionati in Europa, l’ultima volta che si ricordava di avere perso una finale era nell’ultimo anno di high school, in California.
Diana compirà quarant’anni in giugno, quindi di tempo ne è passato parecchio, prima che succedesse di nuovo. E su questa sconfitta persino la GOAT ha messo del proprio. Intendiamoci, senza di lei Phoenix non sarebbe mai arrivata fin lì, ma al momento del dunque Taurasi ha sorprendentemente perso lucidità, si è incaponita in scontri verbali con gli arbitri (non impeccabili, come è umano che sia), non è riuscita a fare un passo indietro e a giocare da secondo violino, lasciando il palco a una meravigliosa Griner.
Prime
Detto di chi non ha vinto, scriviamo di chi invece lo ha fatto. Squadra non giovanissima, le Sky, che fino a pochi giorni prima della chiusura della stagione regolare erano a fortissimo rischio playoff, a causa anche di qualche infortunio di troppo.
Tutto è rapidamente cambiato, in un filotto da sogno: strapazzata Dallas in casa, battuta bene Minnesota in trasferta, serie chiusa 3-1 contro Connecticut (che non perdeva da luglio e lo ha fatto tre volte giocando quattro partite di playoff), stessa storia in finale. Come mai? Questione di chimica, si è soliti dire, il che semplificando ha senso.
Secondo i saggi, merito in primis di Kahleah Cooper, votata MVP delle finali. Nulla da eccepire, se non qualcosa. Cooper è giocatrice eccelsa, ci mancherebbe, capace di attaccare e difendere a livelli altissimi, ma ha impressionato di più il libro dei record riscritto da Courtney Vandersloot, la rappresentazione in campo del playmaker ideale: assist, assist e ancora assist, ma anche punti e rimbalzi, senza dimenticare una gestione del ritmo degna di chi dirige i Berliner.
E poi ci sono Allie Quigley, Stephanie Dolson, Azurá Stevens e, dulcis in fundo, Candace Parker. Lei, che in chiusura di una carriera da migliori venticinque della storia WNBA passata a Los Angeles, si è trasferita in quella Chicago dove è cresciuta per cercare di dare il proprio contributo al primo trionfo in città. Missione compiuta, un’intelligenza di gioco che le ha consentito di fare quanto non riuscito a Taurasi: lasciare spazio a compagne più in palla per dare la stoccata decisiva quando serviva. Ed è servita, eccome. Eccola, la tanto celebrata chimica: tutte protagoniste, in qualche momento di qualche partita.
E dopo? Scritto della discussione sul formato playoff, l’altro grande tema sul tavolo di gestione della WNBA è la possibile espansione della Lega, oggi formata da dodici squadre. Le analisi di mercato dicono che i tempi sono maturi: il successo di pubblico nelle arene (da quando si è potuto) e in televisione mostra una crescita imponente e costante. Molte campionesse si traferiscono adesso in Europa, a far fruttare professionalità e talento in campionati di là dal mare, come si dice negli States.
Appuntamento a maggio, dunque, ma per gli amanti del basket femminile a stelle e strisce non c’è spazio per soffrire del vuoto: tempo venti giorni e parte l’NCAA. E non so dirvi cosa sia meglio.