Che fine ha fatto la retorica ottimista dell’american dream?
Un tempo la fiducia nel futuro era il motore del successo statunitense, ma ora entrambi gli schieramenti sono paralizzati in una narrazione apocalittica di ciò che arriverà in caso di sconfitta
Se c’è una cosa che in questa campagna elettorale è sparita dai radar è l’ottimismo legato all’american dream. Per molto tempo gli Stati Uniti si sono autodefiniti la terra promessa di chi, in ogni angolo del mondo, cercava libertà e opportunità di riscatto. Un concetto intessuto nella Costituzione, e a guardare al passato è innegabile che l’accoglienza verso chi cercava una chance per raggiungere il proprio potenziale è stata il motore del travolgente successo americano, un mito ancestrale celebrato in infinite occasioni dai politici di ogni colore.
Almeno finora.
Mai come in questa campagna elettorale quest’ottimismo latita. Assistendo ai discorsi dei candidati, in entrambi i casi si dipinge la vittoria avversaria come il punto di non ritorno, la fine della democrazia americana, mentre la propria come l’unica chance di salvezza. È un tipico esempio degli effetti della polarizzazione a cui noi europei – e italiani in particolare – siamo avezzi. Negli Stati Uniti, tuttavia, per molti decenni e in maniera bipartisan la retorica del futuro radioso possibile grazie all’idea del sogno americano è stato il mantra di ogni Presidente o aspirante tale.
Ecco un paio di esempi da entrambi i lati dell’arena politica.
L'american dream per Ronald Reagan…
Per Ronald Reagan, l’ottimismo verso il futuro é una conseguenza diretta dell’ideale incarnato nell’american dream. In questo senso, è emblematico il suo storico e ultimo discorso da Presidente del 19 gennaio 1989, durante la consegna delle Medal of Freedom.
Con la sua elegante prosa, Reagan riassume il senso della grandezza americana con una frase: «La libertà dell’America non appartiene a una sola nazione». Libertà e opportunità, quindi, quali luci capaci di attrarre i talenti di tutto il mondo.
Nella visione Reaganiana il sogno americano non è una proprietà privata da proteggere dietro a un muro, ma una speranza su cui chiunque deve poter contare. Fa vari esempi, Reagan, come l’esule cubano scappato da Castro, o l’ex prigioniero di guerra tedesco, nostalgico degli anni di prigionia in California, descritti come i migliori della sua vita.
Per Reagan gli immigrati non sono un peso. Ne evidenzia il forte carattere, la determinazione, la laboriosità e l’imprenditorialità, nonché il fatto che loro più di tutti credono nel sogno americano. Infine, una dichiarazione d’amore e di ottimismo verso la patria e il suo ruolo nel mondo: l'America è «il luogo più libero del mondo, e la migliore speranza per l’uomo sulla Terra». Non solo per gli americani, quindi, ma per tutta l’umanità.
... e per l’attuale Partito Repubblicano
Per Donald Trump e JD Vance, candidati a Presidente e Vicepresidente per il GOP, chi cerca fortuna negli Stati Uniti è un alieno da fermare prima che possa contaminare le radici americane. In discorsi che sono un guazzabuglio di populismo di destra e fake news, gli immigrati rubano il lavoro agli onesti americani, delinquono, rubano le donne, diffondono malattie. Altro che american dream.
Nel discorso che pochi giorni fa JD Vance ha tenuto alla convention Repubblicana a Milwaukee, il concetto stesso di sogno americano è stato stravolto. Per Vance, dell’America non è tanto importante l’idea, quanto la terra, che va protetta da chi vorrebbe entrare per rubare l’american dream agli americani. Va oltre, Vance, rottamando il concetto stesso di sogno americano in favore di quello di nazione americana. È un tipico esempio di reframing, ovvero prendere un concetto e incasellarlo in una cornice che ne pieghi il significato a proprio vantaggio: da sogno dell’America, che tutto il mondo invidia, a sogno degli americani, che dev’essere loro appannaggio. Loro, e di nessun altro.
Trump non è stato da meno: per lui la grandiosità americana non esiste più e solo lui può farla tornare. Una missione messianica, di chi si crede il prescelto dal Signore, cosa che ripete spesso in maniera esplicita nei suoi interventi.
Già all'inizio del suo sconnesso discorso, mentre su un palco stranamente illuminato in blu Dem raccontava in maniera alquanto romanzata l'attentato subito pochi giorni prima, Trump ha fatto subito riferimento ai suoi «strabilianti numeri» sull'immigrazione. Ha poi dipinto un'America in ginocchio nonostante i dati dicano ben altro, un claim che ripete di continuo ed è il nucleo principale della sua strategia di reframing basata sulle fake news.
Per Trump, gli americani starebbero subendo una «invasione massiccia al nostro confine meridionale, che ha diffuso miseria, criminalità, povertà, malattie e distruzione». Parole diametralmente opposte rispetto a quelle di Reagan, di cui Trump, tuttavia, si è autodefiniti in varie occasioni il successore ideale. Una «invasione» – parola che ripete ossessivamente – che lui risolverebbe chiudendo letteralmente i confini, in un isolazionismo che ritroviamo anche nella sua politica estera. É uno dei tanti tratti in comune con Vance, di cui spesso si cita l’esperienza militare nel corpo dei Marines, dimenticando di dire che accompagnava i giornalisti e scriveva comunicati stampa: Vance non ha mai combattuto.
Trump nel suo discorso cita l'american dream, e ammette che è scomparso. Ciò che omette è che la natura stessa del sogno americano prevede determinate condizioni – immigrazione, economia solida e aperta – che sono in antitesi con ciò che propone: un’immediata deflazione, vista come una cosa positiva, invece della catastrofe economica che sarebbe; chiusura dei confini, impedendo al mondo di vivere il sogno americano; una nuova guerra delle tariffe, che deprimerebbe ulteriormente l'economia è alzerebbe i prezzi; il ritorno ai combustibili fossili e la chiusura completa dei sussidi statali per la transizione energetica, rendendo intere zone degli Stati Uniti inabitabili; l'abbandono degli alleati, con il rischio di una guerra nel cuore dell’Europa e a Taiwan, con ripercussioni devastanti anche sull'economia americana che improvvisamente si troverebbe priva di cruciali fornitori e mercati di sbocco.
Per Barack Obama…
Alla convention Democratica del 2004, Barack Obama fece un intervento in sostegno del candidato alla presidenza John Kerry. Il giovane viso del futuro Presidente da una parte tradiva l’emozione, ma dall’altra trasmetteva un grande entusiasmo per l’occasione che aveva. Un discorso, il suo, ricco di appelli all’unità, di positività, con pochissimi accenni a degli avversari che non vengono mai nominati, ma nemmeno demonizzati. Piuttosto, evidenziava come una loro vittoria sarebbe stata un’occasione persa per migliorare ancor di più un’America grandiosa a prescindere. Una terra promessa, per lui come per tante altre persone in tutto il mondo.
Nessun esempio di sconosciuti, come per forza di cose dovette fare Reagan: Obama racconta la storia dei suoi genitori, in particolare di suo padre, che da pastore di pecore in Kenya riuscì a inseguire il sogno americano. Così per Barack – nome che, specifica, significa “benedetto” – l’America è il «magical place» che rende la speranza una realtà. Il sogno degli Obama era quello che tanti immigrati hanno condiviso dalla nascita degli Stati Uniti, di «un’America generosa, dove non serve essere ricchi per raggiungere il proprio potenziale»: l’unico luogo dove la storia di Barack poteva realizzarsi, la terra dove «tutti gli uomini sono creati uguali».
Piccolo inciso. Considerato il clima odierno, una frase più di tutte rischia di diventare presto anacronistica: per quel giovane Obama, l’America è il posto dove «possiamo partecipare al processo politico senza aver paura di essere puniti».
... e per l’attuale Partito Democratico
Nell'attesa di sapere chi sarà il candidato Democratico dopo il ritiro di Joe Biden, cerchiamo di capire quanto fatto finora dai candidati Dem.
Nella retorica utilizzata da Biden e da Harris, l’ottimismo verso il futuro e l’american dream sono concetti che non vengono certo stravolti, quanto piuttosto messi in secondo piano.
Nei suoi discorsi e nelle sue azioni da Presidente, Biden è andato contro quella che è stata per decenni la politica democratica dell'accoglienza. In una sorta di appeasement verso un’opinione pubblica iperpolarizzata e tendenzialmente favorevole a Trump, ha inserito nei suoi discorsi ricorrenti riferimenti al controllo del confine meridionale, e ha preso controversi provvedimenti in tal senso. Misure che non assomigliano nemmeno lontanamente a quelle di Donald Trump, ma rappresentano comunque un cambiamento di rotta per i Democratici e un primo, chiaro freno al meccanismo del sogno americano per tutti.
L’intero Partito Democratico ha messo in secondo piano l’ottimismo verso il futuro, abbracciando un messaggio apocalittico: un Trump di nuovo Presidente finirebbe la questione aperta con l'assalto al Campidoglio è annienterebbe la democrazia. Non che non sia possibile (i segnali ci sono tutti), ma focalizzare la propria comunicazione su un solo messaggio – della serie “se non voti per noi vincono i fascisti” – è spesso una scelta che paga poco in politica. Sia Biden che Harris impiegano molto del tempo a loro disposizione in questo, sacrificando una corretta trasmissione del proprio progetto politico.
Nei suoi discorsi Harris gioca la carta delle sue origini al pari di quanto fatto da Obama, tuttavia difetta dello stesso entusiasmo verso il futuro: lascia intendere che per lei l’american dream è quello di una volta, dei suoi genitori, ed è molto meno credibile quando parla al presente (figuriamoci al futuro).
L’ottimismo non è assente del tutto, come non lo è nemmeno nei discorsi dei loro competitor Repubblicani, che a loro volta impiegano la maggior parte del tempo nel dipingere il quadro di un’America fallita.
In definitiva, tutti si concentrano nell’evidenziare il pericolo rappresentato dai propri avversari, ma ciò che a tutti manca è l'atteggiamento entusiasta e di profonda fiducia nel futuro che i discorsi di Reagan e Obama sanno ancora trasmettere; e la fiducia, come abbiamo visto, è alla base dell’american dream.
Bellissimo approfondimento, grazie!