Charlie Parker: l’anima alata del jazz
La vita e la musica di Charlie Parker sono strettamente legate alla storia afroamericana: tra dolore e fantasmi del passato.

La tomba di Charlie Parker si trova al Lincoln Cemetery di Kansas City, in Missouri. Incisi sulla lapide (sopra il nome e la data di nascita e di morte), un sassofono e una parola di quattro lettere: Bird, il soprannome con cui era conosciuto nel mondo.
«Il sassofono era tutto ciò che aveva; quello con lo strumento era il solo rapporto costante e onesto che sapesse intrattenere. Quanto lui gli dava, il sax gli restituiva. E quello che gli restituiva, Parker non lo dimenticava mai», scrive Stanley Crouch (scrittore, poeta, romanziere e critico culturale, venuto a mancare per ironia della sorte nel 2020, l’anno del centesimo anniversario dalla nascita di Charlie Parker) nella biografia Fulmini a Kansas City. L’ascesa di Charlie Parker (minimum fax, 2014).
Ci sono varie versioni sul perché Charlie Parker fosse soprannominato Bird, alcune meno nobili di altre (amava mangiare le ali di pollo fritte e una volta investì per caso un pollo): la verità è che la sua anima era destinata a non appartenere a questo mondo, a volare più in alto dei comuni mortali.
Una stranezza, considerate le sue origini terrene indissolubilmente legate alla storia e alla cultura degli Stati Uniti. Nelle sue vene scorreva sangue afroamericano e choctaw, e c’erano già tracce dello straordinario talento musicale: il padre era un pianista soggiogato dall’alcol, che lavorava nei teatri di vaudeville per artisti afroamericani e che presto abbandonò moglie e figli.
Charlie, a dispetto degli inizi tutt’altro che semplici, si rivelò un bravo studente, determinato: se qualcosa lo appassionava, ci si applicava finché non la padroneggiava totalmente. Per tutta la sua breve vita (morì a 34 anni), cercò di affinare questa capacità, non rendendosi conto che già possedeva tutto ciò di cui aveva bisogno: il talento, che avrebbe dovuto amare e curare come si fa con un bambino.
Si sposò la prima volta giovanissimo (a soli 16 anni) con Rebecca Ruffin, vicina di casa; di lì a poco, a causa di un incidente stradale, divenne dipendente dalla morfina, e poi da droghe sempre più pesanti.
«Come tutti i musicisti jazz, anche Charlie Parker era tante cose in una: trecento anni di danze e musiche dei neri d’America, dai primi passi mossi dagli schiavi davanti alle loro capanne ai field holler, fino alla rivoluzione melodico-ritmica portata da Louis Armstrong con le sue frasi improvvisate e da Art Tatum con la sua armonia esposta in arpeggi abbaglianti».
Perché la storia di Charlie Parker è anche una storia di fantasmi: non si possono comprendere il suo mondo e la sua musica se non si conosce la cultura afroamericana, né tantomeno il dolore di cui è pervasa, che ha tormentato lo stesso Parker per tutta la vita.
Era nato e cresciuto nel cuore del Midwest, in quello che, come ci ricorda Crouch, qualsiasi cittadino della costa orientale nell’Ottocento considerava il selvaggio West: «Quando su un treno saliva un ubriaco e chiedeva di essere condotto all’inferno, il capotreno lo faceva scendere a Dodge City». E quelle terre divennero in qualche modo l’inizio dell’inferno personale di Charlie Parker: quando arrivò a New York, la voce si sparse. Tutti volevano andare a vedere l’artista arrivato dalla provincia, che stava rivoluzionando il mondo della musica: un nuovo ritmo, un nuovo canone, un nuovo (e finora mai raggiunto) livello di originalità, una nuova vita.
In Kansas, il suo Stato natale, si erano formati nel secolo precedente i Buffalo Soldiers, i reggimenti composti unicamente da afroamericani, «malpagati e discriminati al punto del disprezzo». E Charlie Parker sembrava avere il difficile compito di portare su di sé il peso e il ricordo di ogni discriminazione. È forse per questo che nella sua musica, come nella sua vita, non c’è mai nulla di rassicurante o di prevedibile: «Parker era e restava un uomo malinconico e diffidente, un genio in cerca di sollievo a una tristezza, a un blues che gli infilava nei fianchi speroni affilati come rasoi». I matrimoni finiti, i tentativi di suicidio (e i successivi ricoveri all’ospedale psichiatrico), così come la dipendenza dalla droga, lo trasformarono nell’icona del jazzista tormentato e incostante.
Now’s the time, recita uno dei suoi brani più celebri: quasi a voler illudere noi e sé stesso che il tempo è solo ciò viviamo ora. Ma non è così.
In un bellissimo saggio che raccoglie una serie di lezioni all’università di Harvard, L’origine degli altri (Frassinelli, 2018), Toni Morrison ribadisce un concetto terribilmente vero: per capire il presente occorre sempre conoscere e fare i conti con il passato. Per parlare di oggi è necessario ascoltare i fantasmi di ieri. Che si tratti della voce dimenticata di Margaret Garner (a cui la stessa Morrison dedicò il suo romanzo più celebre, Amatissima), o della storia di Isaac Woodward (veterano afroamericano che nel 1946 di ritorno a casa, venne brutalmente picchiato da un agente di polizia) o della vita e della musica di Charlie Parker.