Tutto ciò che sai sulla cancel culture è falso (o quasi)
Mentre il grande dibattito culturale di questi tempi verte su come e quanto un manipolo di facinorosi cerca di distruggere sistematicamente i classici, la vera cancel culture non viene affrontata.
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A leggere gli articoli della grande maggioranza dei giornali italiani, un osservatore ignaro del contesto potrebbe pensare che il grande dibattito culturale di questi tempi verte su come e quanto un manipolo di facinorosi cerca di distruggere sistematicamente i classici del cinema, della letteratura, se non addirittura dei film d’animazione. Ma non è proprio così, nonostante quel che leggiamo: il discorso intorno alle parole-mondo “politicamente corretto” e “cancel culture” – drogato a monte, come tutti i discorsi politici contemporanei – contiene scorrettezze reciproche e vicendevoli accuse, ma soprattutto non tiene conto di quello che dovrebbe essere il vero oggetto di discussione. E cioè non prìncipi che non possono baciare principesse e aedi che non possono raccontare storie millenarie, ma persone che oggi, nel 2021, si sono trovate nel fuoco incrociato di masse inferocite la cui rabbia, sapientemente incendiata e incanalata da piattaforme senza scrupoli a cui serve per fatturare, fa danni concreti e a tempo indeterminato.
È il caso di David Shor, rispettato sondaggista fino a maggio del 2020 in forza alla società di rilevazioni politiche Civis, da cui è stato allontanato per aver postato su Twitter un paper di un ricercatore di Princeton che vedeva nelle violenze di alcune frange del movimento Black Lives Matter una possibile fonte di crescita del consenso dell’allora presidente Donald Trump.
Non soltanto Shor – che ha idee politiche progressiste – si è scusato, per una colpa difficile da scovare, ma molti, nel Partito Democratico statunitense, hanno lasciato intendere che se la fosse cercata (un po’ come quando una certa vulgata collega le violenze sessuali alle gonne corte, volendo). Ecco: la cancel culture non riguarda principi delle favole e John Travolta vestito per il sabato sera, ma persone in carne e ossa che fanno le spese di un clima iperpolarizzato e intollerante, spesso e volentieri rimettendoci la propria carriera.
Shor non è lontanamente l’unico caso, peraltro: nell’estate dello stesso anno Daniel Elder, di professione compositore, si è macchiato dell’orrenda colpa di postare sul suo account Instagram un laconico messaggio diretto a manifestare la sua frustrazione per il rogo – avvenuto a margine di una locale manifestazione di Black Lives Matter – del municipio di Nashville, la sua città, che era peraltro un luogo di interesse storico: è nata la più classica delle shitstorm, il suo editore non pubblica più la sua musica, e persino i cori si rifiutano di cantarla (anche Elder ha visioni politiche schierate a sinistra).
E poi certo, ci sono anche le frange del movimento per una malintesa giustizia sociale che paiono mirare a rendersi ridicole, ma non devono essere considerate meno preoccupanti: un articolo apparso sulla prestigiosa rivista Scientific American qualche giorno fa sosteneva che l’acronimo “Jedi” non può essere usato per descrivere i programmi aziendali di Justice Equity Diversity and Inclusion, perché gli omonimi cavalieri della saga di George Lucas sono la quintessenza del white saviorism e della mascolinità tossica.
Ci sono termini che ricorrono, nel prontuario degli attivisti disposti a manganellare collettivamente per far passare un messaggio: i “maschi bianchi cis etero” sono i poster boy del privilegio; gli “oppressi” possono ricomprendere alternativamente afroamericani, omosessuali, persone non binarie o queer, ma ognuno di essi può a sua volta tramutarsi in “privilegiato”, nella foga dello shitstorm prescrittivo. È quanto successo ad esempio all’afroamericana Alexi McCammond, che a marzo stava per diventare direttrice di Teen Vogue, ma è stata cacciata da Condé Nast perché qualcuno ha iniziato a far girare online tweet xenofobi risalenti a quando McCammond aveva 17 anni.
Se anche persone benintenzionate e di idee politiche progressiste come Shor o Elder finiscono nel tritacarne della giustizia sommaria su Twitter, allora evidentemente un problema c’è: i cambiamenti linguistici e sociali che chiamiamo “politicamente corretto” (che di “cancel culture” non è peraltro un sinonimo intercambiabile) vanno discussi e coltivati in senso culturale, nelle scuole e nei corsi universitari, non imposti con la forza del branco su Twitter. Quel che è certo, però, è che finché ci preoccuperemo di Jessica Rabbit e Grease non riusciremo nemmeno a mettere a fuoco il problema.
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